Ο παγκοσμοποιημένος καπιταλισμός βλάπτει σοβαρά την υγεία σας.
Il capitalismo globalizzato nuoce gravemente alla salute....
.... e puo' indurre, nei soggetti piu' deboli, alterazioni della vista e dell'udito, con tendenza all'apatia e la graduale perdita di coscienza ...

(di classe) :-))

Francobolllo

Francobollo.
Sarà un caso, ma adesso che si respira nuovamente aria fetida di destra smoderata e becera la polizia torna a picchiare la gente onesta.


Europa, SVEGLIA !!

Europa, SVEGLIA !!

sabato 30 novembre 2013

Alexis Tsipras contro gli zeloti del neoliberismo

 

 
Sul quotidiano inglese Guardian è uscito il 27 novembre un articolo del presidente di Syriza Alexis Tsipras che spiega le ragioni della sua candidatura alla presidenza della Commissione Europea per il Partito della Sinistra Europea.
L’austerità sta scatenando il caos, ma la sinistra può unirsi per costruire un’Europa migliore
Zeloti del neoliberismo hanno creato una tragedia umanitaria in tutto il continente.

Più di 1.000 giovani al giorno si stanno aggiungendo alle fila dei disoccupati in Europa. Negli ultimi quattro anni l’esercito di disoccupati in tutto il continente è cresciuto di oltre 10 milioni.
In Grecia, nonostante l’affermazione del governo che l’austerità è stata un successo, il bilancio 2014 impone nuovi tagli alla spesa pubblica e maggiori perdite occupazionali. La catastrofe economica e umanitaria è senza precedenti in tempo di pace: il 27% di disoccupazione, disoccupazione giovanile al 60%, una contrazione del 25% del PIL, riduzione del 40% del reddito familiare. E, anche dopo dolore implacabile, il rapporto debito-PIL è quasi il 180%. Era solo del 120% nel 2010, quando sono state istituite le prime misure di austerità.
Ma la tragedia umana non è limitata alla Grecia. I salari di tutta Europa sono stati ridotti e il welfare state ridimensionato a una velocità senza precedenti nel dopoguerra. Milioni di persone stanno lottando per pagare i loro mutui, bollette di energia elettrica o debiti medici e studenteschi. La crisi umanitaria dell’Europa è diversa da qualsiasi cosa sperimentata in 60 anni, con 120 milioni di persone che sopportano condizioni di estrema difficoltà, secondo la Croce Rossa. Questo non è un fenomeno naturale, ma è, per usare le parole di Nelson Mandela, povertà “artificiale” (manmade nel testo originale ndt).
Gli Zeloti del neoliberismo hanno rovesciato la vita della gente comune a testa in giù. Le loro politiche di aggiustamento strutturale servono un modello di governance economica che trasferisce il rischio sulle spalle di lavoratori comuni e giovani. Ma la risposta della UE e dei leader nazionali è senza speranza. La principale iniziativa politica dell’UE sulla disoccupazione giovanile (”garanzia per i giovani”) ammonta, ad esempio, a soli € 6 miliardi o 0,6% del bilancio UE per il periodo 2014-2020.
Austerità, precarietà del lavoro e le dinamiche dei mercati minano la capacità dei lavoratori a basso e medio reddito di vivere decentemente. L’indebitamento delle famiglie è estremamente elevato nei Paesi Bassi e Malta (quasi il 220% del PIL), mentre in Portogallo, Spagna e Italia molte aziende sono intrappolate in una spirale di debito.
Quei leader europei che sostengono che la medicina attuale è un “successo” sono ipocriti. Per milioni di persone, il sogno europeo si è trasformato in un incubo. I sondaggi di Eurobarometro indicano la crescente crisi di fiducia nell’Unione europea e l’aumento catastrofico della popolarità dei partiti di estrema destra. Quello che dovrebbe darci la speranza è l’emergere di nuovi gruppi di solidarietà e movimenti basati sulla comunità. Essi possono e potranno portare ad una maggiore partecipazione e controllo democratico.
Le elezioni europee del prossimo maggio ci forniscono anche un’opportunità per avviare un vero dialogo con i cittadini – specialmente quelli che ritengono che nessuno si prende cura di loro – su una nuova base per una democrazia significativa e la dignità umana. È tempo per l’Europa di fermare la violazione scioccante dei diritti umani col rimodellare lo Stato, ripristinare la crescita e creare posti di lavoro di alta qualità, stabili con le protezioni che hanno storicamente contribuito al modello sociale europeo.
L’Europa ha bisogno di un fronte anti-austerità e anti-recessione , un movimento di solidarietà per i suoi lavoratori, del nord e del sud. Questo potrebbe lanciare un patto per la democrazia, lo sviluppo e la giustizia sociale. Dobbiamo ricostruire la solidarietà tra i giovani, i lavoratori, i pensionati ed i disoccupati per abbattere la nuova linea di divisione tra ricchi e poveri dell’Europa, il “mur d’argent”, per usare una frase storica che è diventata di attualità.
Mi presenterò per la presidenza della Commissione europea, a nome del Partito della Sinistra Europea, e tale decisione è motivata dal nostro desiderio di riunificare l’Europa e ricostruirla su una base democratica e progressista. C’è un’alternativa alla crisi attuale, ed è nostro dovere e destino di combattere.

venerdì 29 novembre 2013

Le quattro vecchie fallacie della nuova Grande Depressione

di Robert Skidelsky - sinistrainrete -

Il periodo iniziato nel 2008 ha prodotto un’abbondante raccolta di fallacie economiche riciclate, soprattutto sulle labbra dei leader politici. Ecco le mie quattro preferite.

1) La casalinga sveva.
“Si dovrebbe semplicemente chiedere alla casalinga sveva”, ha detto la cancelliera tedesca Angela Merkel dopo il crollo di Lehman Brothers nel 2008. “Lei ci avrebbe detto che non si può vivere oltre i propri mezzi”

Questa logica apparentemente sensata è la base dell’austerità. Il problema è che ignora l’effetto della parsimonia della casalinga sulla domanda totale. Se tutte le famiglie frenano le loro spese, il consumo totale cade e lo stesso accade per la domanda di lavoro [da parte delle imprese, ndr]. Se il marito della casalinga perde il lavoro, la famiglia starà peggio di prima.
Il caso generale di questa fallacia è la “fallacia di composizione”: ciò che ha senso per ogni famiglia o impresa individuale non necessariamente è bene in aggregato.
Il caso particolare che John Maynard Keynes ha individuato è il “paradosso della parsimonia”: se ognuno cerca di risparmiare di più in tempi difficili, la domanda aggregata cadrà, riducendo il risparmio totale, a causa del calo dei consumi e della crescita economica .
Se il governo cerca di ridurre il deficit, le famiglie e le imprese dovranno stringere i cordoni della borsa, con conseguente riduzione della spesa totale. Di conseguenza, per quanto il governo tagli la spesa, il suo deficit si ridurrà a malapena. E se tutti i paesi perseguono simultaneamente l’austerità, la minore domanda di beni di ogni paese porterà a consumi nazionali ed esteri più bassi, e tutto andrà peggio.

2) Lo Stato non può spendere soldi che non ha.

Questo errore – spesso ripetuto dal primo ministro britannico David Cameron – tratta gli Stati come se avessero di fronte gli stessi vincoli di bilancio delle famiglie o delle imprese. Ma gli Stati non sono come famiglie o imprese. Essi possono ottenere i soldi di cui hanno bisogno attraverso l’emissione di obbligazioni.
Ma uno Stato sempre più indebitato non deve pagare tassi di interesse sempre più alti, cosicché i costi di servizio del debito alla fine consumano tutto il suo reddito? La risposta è no: la banca centrale può stampare abbastanza moneta extra per contenere il costo del debito pubblico. Questo è ciò che fa il cosiddetto quantitative easing. Con tassi di interesse vicino allo zero, la maggior parte degli Stati occidentali non possono permettersi di non prendere soldi in prestito.
Questo argomento non vale per uno stato senza una propria banca centrale, nel qual caso si affaccia esattamente lo stesso vincolo di bilancio della massaia sveva spesso citata Questo è il motivo per cui alcuni Stati membri della zona euro hanno avuto così tanti problemi fino a quando la Banca centrale europea è corsa ai ripari.

3)
Il debito pubblico è tassazione differita. Secondo questa fallacia spesso ripetuta, gli Stati possono raccogliere fondi attraverso l’emissione di obbligazioni, ma , poiché le obbligazioni sono prestiti che alla fine dovranno essere rimborsati, ciò può essere fatto solo aumentando le tasse. E, poiché i contribuenti si aspettano questo, essi risparmieranno ora per pagare i futuri impegni fiscali. Quanto più il governo prende in prestito per pagare la spesa oggi, più la gente risparmierà per pagare le tasse in futuro, annullando qualsiasi effetto stimolante del finanziamento supplementare.

Il problema di questa argomentazione è che gli Stati sono raramente costretti a “pagare” i loro debiti. Essi potrebbero decidere di farlo, ma nella maggioranza dei casi li rinnovano alla scadenza mediante l’emissione di nuove obbligazioni. Più lunghe sono le scadenze delle obbligazioni, meno frequentemente gli Stati devono andare sul mercato per nuovi prestiti.
Ancor più importante, quando ci sono risorse inutilizzate ad esempio, quando la disoccupazione è molto più alta del normale), la spesa attivata dal prestito allo Stato riporta queste risorse in attività. L’aumento delle entrate dello Stato così generate (più la diminuzione della spesa per i disoccupati) paga il prestito extra senza dover alzare le tasse .

4)
Il debito pubblico è un onere per le generazioni future. Questo errore viene ripetuto così spesso che è entrato l’inconscio collettivo. L’argomento è che, se l’attuale generazione spende più di quanto guadagna, la prossima generazione sarà costretta a guadagnare più di quanto spende per ripagare il debito.

Ma questo non tiene conto del fatto che i possessori di quello stesso debito saranno i membri delle presunte gravate generazioni future. Supponiamo che i miei figli debbano rimborsare il debito verso di voi che io ho contratto. Staranno peggio . Ma voi starete meglio. Questo può essere un male per la distribuzione della ricchezza e del reddito, perché si arricchirà il creditore a discapito del debitore, ma non ci sarà alcun onere netto sulle generazioni future.
Il principio è esattamente lo stesso quando i detentori del debito pubblico sono stranieri (come nel caso della Grecia), anche se l’opposizione politica al rimborso sarà molto più grande.
Le fallacie crescono rigogliose in economia, perché non è una scienza naturale come la fisica o la chimica. Le proposizioni in economia sono raramente assolutamente vere o false. Ciò che è vero in alcune circostanze può essere falso in altri. Soprattutto, la verità di molte proposizioni dipende dalle aspettative della gente.
Si consideri la credenza che più il governo prende in prestito, più alto sarà il futuro onere fiscale. Se le persone agiscono su questa convinzione risparmiando ogni sterlina, dollaro o euro extra che il governo mette loro in tasca, la spesa pubblica in più non avrà alcun effetto sulle attività economiche, indipendentemente da quante risorse sono inattive. Il governo deve quindi aumentare le tasse – e la fallacia diventa una profezia che si autoavvera.
Quindi come dobbiamo distinguere tra proposizioni vere o false in economia? Forse la linea di demarcazione deve essere tracciata tra proposizioni che valgono solo se la gente si aspetta che siano vere e quelle che sono vere a prescindere dalle credenze. L’affermazione : “Se tutti risparmiamo di più in una crisi staremmo tutti meglio”, è assolutamente falsa. Staremmo tutti peggio Ma l’affermazione: “Quanto più lo Stato prende soldi in prestito, più deve pagare per il suo prestito” a volte è vera e a volte è falsa.
O forse la linea di demarcazione deve essere tracciata tra proposizioni che dipendono da ipotesi comportamentali ragionevoli e quelli che dipendono da quelle ridicole. Se le persone risparmiassero ogni centesimo in più del denaro preso in prestito che il governo ha speso, la spesa non avrebbe alcun effetto stimolante. Vero. Ma tali persone esistono solo nei modelli degli economisti.

L’Unione Europea è fallita, siamo tutti su una autostrada tedesca!

Pubblicato il 28 nov 2013 - rifondazione -

di Paolo Ferrero – L’accordo tra SPD e CDU per il governo della Merkel in Germania sancisce il fallimento dell’Unione Europea: siamo tutti su una autostrada tedesca! Nell’accordo viene confermata la linea della Merkel di usare l’Europa per garantire i profitti alla Germania, condannando l’Europa alla disoccupazione e alla distruzione. L’emblema di questo accordo, la metafora più chiara di questo accordo è la decisione di far pagare le autostrade tedesche solo agli stranieri: questa è la politica di potenza del governo tedesco. Occorre quindi prendere atto che l’Unione Europea è fallita ed è diventata il contrario del sogno dell’Europa unita: dalla prosecuzione di questa Unione Europea abbiamo solo da perderci. Per questo è necessario rompere questa Unione Europea prima che questa distrugga noi: Letta, invece di continuare a raccontare le favole dica chiaramente che l’Italia non rispetterà più le direttive e i trattati europei, a partire dal ritiro della firma sul Fiscal Compact.

Come nacque la Berlusconomics

Fonte: Il Manifesto| Autore: Tonino Perna
Alla fine degli ani '70 del secolo scorso arrivò al potere negli Usa un modesto attore di film western che divenne lo strumento con cui la grande finanza e le imprese multinazionali riuscirono in pochi anni a creare un altro modello economico: la Reaganomics. Non era un modello originale, ma l'estremizzazione di categorie rimaste confinate nel dibattito accademico. Negli anni '70, infatti, scricchiolava e perdeva prestigio l'economia neokeynesiana per gli effetti della stagflazione, una crescita significativa dell'inflazione accompagnata a bassa crescita o stagnazione, unitamente ad un alto livello di disoccupazione.

Questo fenomeno metteva in difficoltà gli economisti: un tasso sostenuto di inflazione si era storicamente accompagnato alla crescita economica (eccetto i casi di iperinflazione) , allo stesso modo in cui la stagnazione economica era storicamente correlata ad una caduta dei prezzi. In sostanza, il mercato capitalistico non rispondeva più alle leggi della domanda e dell'offerta, per cui in presenza di un alto tasso di disoccupazione e crescita zero si doveva assistere ad un abbassamento del livello salariale, tale da permettere al sistema economico di riprendersi e riassorbire, nel medio-lungo periodo, una parte rilevante dei disoccupati.

Keynes negli anni '30 aveva spiegato bene che i salari hanno una rigidità verso il basso dovuto a quella che lui definiva "l'illusione monetaria", determinata per altro dalla presenza di forti organizzazioni sindacali. E proprio queste negli anni '70 avevano determinato in tutto l'Occidente ondate di lotte sociali, dentro e fuori le fabbriche, che avevano portato a netti miglioramenti nel tenore di vita dei lavoratori.

Il sistema aveva retto finché non si era arrivati ad un alto livello di sovrapproduzione alla fine degli anni '70. Ed è questo il momento in cui entra in scena Ronald Reagan che sposa la politica economica della scuola di Chicago di Milton Friedman, che individuava nell'eccesso di spesa sociale, di fisco punitivo per i redditi alti, di mercato del lavoro "rigido", le cause della crisi. La terapia, pertanto, consisteva nel ridurre drasticamente le aliquote per i profitti ed i redditi alti, liberalizzare i movimenti di capitali, in un quadro di decentramento produttivo che portò in un decennio ad uno spostamento dell'industria manifatturiera statunitense fuori dal paese, indebolendo il momento sindacale ed il potere contrattuale dei lavoratori.

Se osserviamo la distribuzione del reddito negli Usa nel periodo 1950/1978 , divisa per quintili, vediamo che il quinto più povero della popolazione aveva aumentato il reddito reale del 140%, il quinto più ricco del 99%. Di contro nel periodo 1978-1993, con l'avvento della Reaganomics, il quinto più povero perde il 19% mentre il quinto più ricco guadagna il 18% in termini reali. Il cambiamento di rotta era stato netto. Per l'Italia questa inversione di tendenza arriva all'inizio degli anni '90, con la crisi del '92, la svalutazione del 30% della lira e l'indebolimento del movimento dei lavoratori.

E' in questo contesto che bisogna inquadrare l'arrivo di Berlusconi al potere. Lui era un parvenu, che aveva fatto una grande fortuna in pochi anni grazie ai legami con il potere politico (Craxi) e le negoziazioni con le organizzazioni criminali (mafia siciliana). Era un nuovo tipo di borghese, che assomigliava tanto a quella "classe agiata" analizzata da Veblen, ignorante ed ingorda, ambiziosa e arrivista senza scrupoli morali, degli States alla fine del XIX secolo. Ed anche un nuovo tipo di imprenditore che aveva fatto la sua fortuna, non nella tradizionale industria manifatturiera, ma con i nuovi mezzi di comunicazione (la tv privata) dove economia, spettacolo ed ideologia, si intrecciano. La vecchia borghesia italiana, le grandi famiglie degli Agnelli, Pirelli, Costa, ecc., il salotto "buono" di Cuccia, all'inizio lo sottovalutarono o lo snobbarono, ma in pochi anni dovettero venire a patti con il nuovo padrone.

Berlusconi portava avanti con la sua forza comunicativa e con i potenti mezzi di cui disponeva un nuovo credo: il denaro crea l'onore e la stima sociale, indipendentemente da come si è arrivati a possederlo. Non bisogna più vergognarsi di essere ricchi, anzi bisogna sfoggiare la ricchezza, e la ricchezza individuale è alla portata di tutti quelli che sono capaci "i vincenti", e fa bene a tutto il paese perché genera nuovi consumi e posti di lavoro. In questa visione della realtà sociale, lo Stato diventa un parassita che va drasticamente ridotto, ma allo stesso tempo è la fonte di extraprofitti, che solo la mano pubblica può offrire. Questa nuova ideologia offriva una legittimazione politica a quel sentimento antistatale così diffuso nel nostro paese, unitamente al bisogno di trovare quel salvatore della patria, l'uomo della Provvidenza, che gli italiani continuano a sognare ciclicamente. Da qui la corsa verso un aumento del debito pubblico, unico strumento che permetteva contemporaneamente una grande evasione dei ceti medio-alti e un po' di assistenza per mantenere il consenso, nonché il finanziamento delle Grandi Opere per garantire il cerchio magico dei Grandi Affari.

Il Cavaliere non ha abbassato le imposte, come aveva fatto Reagan per il ceto medio-alto, non ha smantellato bruscamente lo Sato sociale, come avevano fatto la coppia Tacher-Reagan, ma è riuscito a ridurre progressivamente lo Stato sociale ed i diritti, all'interno di un quadro di illegalità diffusa e capillare. Qui sta la profonda differenza con la Reaganomics, la versione berlusconiana del neoliberismo che si sposa con la via criminale al capitalismo. Negli States e nell'Inghilterra, l'ideologia neoliberista è passata attraverso le leggi e l'imposizione/repressione di uno Stato forte, la via italiana al neoliberismo è transitata dolcemente attraverso regole non scritte, uno smantellamento progressivo dello Stato di diritto, un'autostrada che è stata offerta alla borghesia criminale emergente.

La Berlusconomics è così diventata un modello sociale in cui il denaro si legittima da sé, la corruzione è la norma per fare affari, l'evasione fiscale un dovere per sottrarsi al furto di risorse da parte di uno Stato rapinatore e sciupone. E se dopo vent'anni, decine di scandali e frodi i sondaggi lo danno ancora come uno dei leader più forti è perché una parte degli italiani, che oserei stimare in oltre un terzo, condivide, pratica ed ha interiorizzato quel modello. Chi conosce dal di dentro il mondo delle imprese sa che sono rarissime le gare d'appalto che si vincono per meriti, senza pagare una "tangente" o aver negoziato uno scambio di favori. Chi conosce il mondo della piccola impresa sa quanto è diffuso il lavoro nero perché in questo paese la gran parte degli ispettori del lavoro sono corrotti o indulgenti. Chi conosce il mondo dei professionisti- avvocati, commercialisti, consulenti finanziari- sa come il loro reddito dipende in buona parte dalla capacità di aggirare le norme, di evadere le tasse, esportare i capitali nei paradisi fiscali.

C'è anche un rovescio della medaglia. Per chi vuole vivere nella legalità, il carico fiscale, soprattutto sulla piccola e media impresa, è diventato insopportabile. Nelle microimprese, artigianali o commerciali, se si rispettassero tutte le norme la gran parte potrebbe chiudere i battenti. Per chi subisce un torto e spera nella giustizia civile rischia di fallire prima che si concluda un processo. Per chi commette un reato penale, se non è amico della Cancellieri, rischia di restare in attesa di giudizio per anni.
Questo sfascio istituzionalizzato non ha fatto altro che far crescere la massa di coloro che si sono identificati, per rabbia o per necessità, nella Berlusconomics. Il sistema si è autoalimentato finché non è scoppiata la crisi finanziaria che si è riverberata sull'economia reale, ed il modello è andato in tilt. Ma, la Berlusconomics ha messo ormai radici profonde nel nostro paese e sarà difficile sradicarle nel medio periodo.

Il rischio è che chi verrà dopo di lui, faccia quello che hanno fatto Clinton o Blair: mantenere sostanzialmente il modello, spuntando solo le parti più indigeste. Il nostro Clinton è giovane e belloccio come Bill quando arrivò al potere, e come lui un buon comunicatore a trecentosessanta gradi, per piacere a tutti. Clinton non è riuscito a fare la riforma sanitaria e un fisco progressivo- come aveva promesso in campagna elettorale- ma ci ha regalato nel 1994 la liberazione della finanza, abrogando i vincoli creati da Roosevelt per impedire che si ripetesse il crac del '29. Da meno di 100 miliardi di derivati finanziari del 1994 si è passati ai 600.000 miliardi di dollari del 2007, ed ai 650mila di oggi. Vediamo cosa sarà capace di fare il nostro Fonzie e gli amici finanzieri che lo sostengono.

Così possiamo cambiare l'Europa

di Paolo Pini - sbilanciamoci -
 
Un’altra rotta per l'Europa è possibile, mantenendo la moneta unica e cambiando regole e politica economica. L'introduzione dell'ultimo libro di Paolo Pini
È condivisa l’opinione che la crisi economica ha colpito una Europa che si regge solo su un pilastro, mentre un secondo pilastro manca. Il pilastro esistente è quello della Europa Economica, peraltro incompleta ed asimmetrica. Il pilastro mancante è quello della Europa Politica, che avrebbe dovuto portare agli Stati Uniti d’Europa. Avere sostituito alla prospettiva dell’Europa degli Stati quella dell’Europa dei Governi, l’Europa intergovernativa, è la più evidente dimostrazione che il progetto europeo si è ripiegato su se stesso, ed a ciò ha contribuito la non approvazione della Costituzione Europea. Ma le radici sono forse più profonde.
La supremazia dell'Europa Economica sull'Europa Politica nell'Era euro
A fronte delle difficoltà di procedere verso la strada dell’Europa Politica in una fase in cui l’Unione Europea procedeva a tappe forzate verso l’allargamento ad est, si è avviato un processo centrato sulla moneta unica come strumento di armonizzazione e convergenza delle economie dei singoli Paesi al fine di giungere (armonizzate le economie) alla unità politica. Impossibilitati a fare l’Europa Politica per via politica, si è percorsa la strada dell’Europa Economica per realizzare quella Politica, come second best.
Ci hanno raccontato che la moneta unica richiedeva almeno due condizioni per poter funzionare: un tasso di inflazione analogo tra paesi, e deficit fiscali e debiti pubblici contenuti. Soprattutto però la moneta unica porta con sé la necessità di sistemi economici armonizzati e convergenti. Armonizzazione e convergenza implicano anche una gestione di equilibrio delle bilance commerciali dei vari paesi e dei flussi di commercio intra-europeo. Questo era invece caratterizzato da un eccessivo surplus dell’area tedesca e nordica che avrebbe richiesto di essere ridotto con una maggiore domanda interna e/o maggiore inflazione nelle aree con avanzi strutturali. Invece di procedere in tal senso, sono stati posti vincoli alle politiche di bilancio degli Stati con deficit commerciali, e richieste via via più pressanti, sino a divenire vincolanti, di riforme strutturali, del mercato del lavoro e per la concorrenza dei mercati in generale. I famosi «compiti a casa».
Questo processo si è scontrato con una conseguenza, in parte endogena, e con un accadimento, in parte esogeno.
La conseguenza endogena è il fatto che con la moneta unica non si è avviata la armonizzazione delle economie dei vari Stati dell’Unione; anzi la moneta unica ha consentito di, o è stata utilizzata per, rafforzare le differenze e le distanze tra paesi. Invece di convergere, vi è stato un processo di divergenza nei tassi di crescita dei paesi e nei flussi commerciali e finanziari tra gli stessi. La ragione è che l’onere dell’aggiustamento è stato posto sui paesi deboli, con deficit commerciali e debiti pubblici, mentre i paesi forti, quelli soprattutto con avanzi commerciali strutturali crescenti, erano dispensati dal rallentare le loro politiche mercantili e far crescere la loro domanda interna.
Secondo alcuni la «responsabilità» sarebbe invece della politica di alcuni paesi (i deboli) che invece di riformare strutturalmente i sistemi economici nazionali nei tempi richiesti, i mercati del lavoro, dei beni e delle attività finanziarie, ha rimandato le necessarie riforme, portando tali paesi a «vivere al di sopra delle loro possibilità». Secondo altri, sono stati invece proprio i paesi forti che hanno goduto di un vantaggio competitivo iniziale e in virtù di tale vantaggio hanno proceduto a passi forzati nelle riforme strutturali in un contesto nel quale la moneta unica li metteva al riparo dalle spinte di rivalutazione del cambio, mentre la stessa moneta unica metteva in difficoltà gli altri paesi impossibilitati a svalutare. Indipendentemente da chi abbia ragione, è indubbio che negli anni della moneta unica l’armonizzazione dei sistemi economici non si è realizzata; anzi la distanza tra paesi forti e «virtuosi» e paesi deboli e «viziosi» è aumentata, e le economie si sono divaricate. I differenziali dei tassi di crescita del reddito tra paesi sono aumentati, e sono cresciute le distanze tra i debiti pubblici e privati tra paesi come conseguenza anche della crescita negli squilibri dei saldi commerciali sempre tra i medesimi paesi (Krugman, 2009).
È poi sopraggiunta la crisi economica del 2008, in parte endogena, perché anche importata dagli Stati Uniti.
La prima risposta, di qua e di là dell’Atlantico, come sappiamo, è stata quella di arginare la crisi nei mercati finanziari, di evitare che questa si diffondesse sui mercati reali, cercando di evitare prima i fallimenti dei sistemi bancari, e poi il credit crunch nei mercati del credito per imprese e famiglie.
Negli Stati Uniti veniva realizzata una tiepida, ma comunque indispensabile e non irrilevante quantitativamente, politica fiscale espansiva che accompagnava una politica monetaria decisamente espansiva che portava i tassi di interesse a zero. In Europa il rigore fiscale è stato inizialmente alleggerito e la politica monetaria ha accompagnato la domanda di moneta sui mercati mantenendo sempre controllato però il tasso di inflazione, essendo la stabilità dei prezzi l’obiettivo cardine della Bce. Le manovre contro la crisi non hanno impedito però che i deficit di bilancio ed i debiti pubblici (ed anche privati) peggiorassero, in modo alquanto diseguale fra i paesi dell’Unione Europea. Anzi la crisi e le politiche per arginare la crisi hanno peggiorato le situazioni debitorie.
Come è noto questo ha portato ad una situazione nella quale neppure usciti dalla crisi del 2008-2009, con i tiepidi segnali di ripresa nel 2010, si è ripiombati in una crisi dei mercati finanziari europei e quindi delle economie reali nel 2011. A fronte di questa seconda crisi, mentre negli Stati Uniti si realizzavano politiche monetarie ancora più espansive e politiche fiscali comunque non restrittive, in Europa si è risposto da subito con più rigore sui conti pubblici e sui sistemi di welfare, per realizzare il rientro dai deficit di bilancio e dai debiti pubblici, ovvero con politiche severe di austerità, e con un rafforzamento della domanda di riforme strutturali sui mercati del lavoro (soprattutto), e dei beni (anche, ma non troppo) e dei mercati finanziari (assai poco) (Krugman, 2009; 2012b; Pianta, 2012; Bianchi, Pini, 2009).
Le risposte alla seconda crisi
Dopo una fase (breve) in cui sono state poste in discussione le politiche economiche liberiste e neo-liberiste ed i loro effetti negativi sul funzionamento dei mercati a scapito della crescita e della occupazione, soprattutto in Europa la pressione dei mercati ha convinto molti a ritornare alle vecchie ricette del rigore ad ogni costo e del non intervento dello Stato per sostenere la domanda.
La logica con la quale si è risposto alla crisi dei mercati finanziari si è tradotta in un mix di rigore e liberismo: le perdite sono collettive, i guadagni sono individuali, che applicato al sistema finanziario in crisi vuol significare socializzare le perdite dei mercati scaricandole sui conti pubblici e sulla collettività che paga con più oneri fiscali, per poi far pagare due volte alla collettività, anche per la crescita dei deficit e debiti pubblici, imponendo misure di austerità e di riduzione del welfare in nome del rigore, trasferendo eventualmente sui mercati anche quote di welfare pubblico (con la privatizzazione del welfare) (Bianchi, Pini, 2009; Brancaccio, Passarella, 2012; Pianta, 2012; Stiglitz, 2012).
Ovviamente questo sentiero sopra esposto non sta procedendo in modo lineare e neppure con quella rigidità e pervicacia che alcuni studiosi liberisti e neo-liberisti auspicherebbero.
Ciò per una serie di ragioni, esogene ed endogene anche queste allo scenario europeo.
Una esogena, prima per importanza, è che negli Stati Uniti la linea dell’austerità e del libero mercato, che intendeva garantire ancor più ricchezza al 10%, se non all’1%, della popolazione, non è stata premiata dall’elettorato, per cui si confermano politiche monetarie espansive mentre sulla politica fiscale prosegue la contrapposizione tra linea liberista e linea non-liberista (non può essere chiamata keynesiana, però), come è avvenuto sul fiscal cliff.
In secondo luogo, in Europa la linea dell’austerità produce danni gravi: gli effetti economici che essa provoca sono notevoli sia sulla crescita del reddito, sia sulla stabilità dei conti pubblici, ed anche perniciosi sul piano politico. I paesi deboli in ragione delle politiche di austerità a loro imposte stanno pagando sia sotto forma di perdite nei redditi e nell’occupazione, sia sotto forma di peggioramento dei deficit e debiti pubblici che si volevano migliorare. Il peggioramento è andato al di sopra delle pur cupe previsioni, in quanto, come osservato anche dal Fondo Monetario Internazionale (Blanchard, Leigh, 2013; Corsetti, Meier, Müller, 2012), sono stati sottostimati grandemente i moltiplicatori della politica fiscale, per cui misure fiscali restrittive hanno avuto impatti negativi sul reddito ben maggiori di quelli previsti, determinando tassi di crescita molto negativi del Pil dei paesi più deboli, ad iniziare dalla Grecia, Portogallo, ed anche Spagna ed Italia, ed un rallentamento significativo della crescita in tutta l’area euro che tocca anche la Germania per la quale si hanno previsioni economiche negative. Tutto ciò contribuisce a sollevare dubbi sulla scelta del rigore ad ogni costo.
In terzo luogo, in Europa vi sono istituzioni, forze politiche e sociali, ed anche economisti avveduti, che in qualche modo hanno indotto un aggiustamento, anche se certamente inadeguato, nelle politiche di rigore. Sono stati introdotti strumenti che hanno conferito più potere alla Banca Centrale Europea di intervenire con operazioni monetarie tali da influenzare i mercati finanziari ed il comportamento delle istituzioni finanziarie e creditizie. Seppure molte iniziative siano state contrastate e frenate dalle autorità tedesche, la Bce ha svolto in parte un ruolo di supplenza monetario rispetto alle gravi carenze del coordinamento fiscale.
Sappiamo però che gran parte della liquidità immessa dalla Bce è servita alle banche (a) per finanziarsi a basso costo ed acquistare titoli pubblici con rendimenti superiori al tasso pagato alla Bce medesima, piuttosto che soddisfare la domanda di prestiti da parte di imprese e famiglie con effetti positivi sull’economia reale, ed al contempo (b) per procedere alla ricapitalizzazione richiesta dai vincoli più stringenti previsti dalla revisione degli accordi di Basilea (Ruffolo, Sylos Labini, 2012; Leon, 2012a). Gli effetti negativi della politica di austerità non si riducono, benché vi sia una tregua nella tensione sui mercati finanziari e sugli spread tra titoli pubblici emessi nei diversi paesi. Nel frattempo, anche gli squilibri nei saldi commerciali tra paesi dell’area euro non si riducono, anzi crescono. Questi squilibri sono parte del problema della crisi europea, con i paesi forti che hanno costruito la loro crescita sulla componente della domanda estera, sulle quote di commercio intra-europeo piuttosto che extra-europeo, col rischio di politiche del tipo Beggar thy neighbours, in un gioco che è tendenzialmente a somma zero in quanto le esportazioni dell’uno sono le importazioni dell’altro e parallelamente i deficit ed i debiti (pubblici, ma anche privati) dell’uno sono gli avanzi ed i crediti dell’altro (Eichengreen, 2012; Protopapadakis, 2012; iAGS, 2012).
Due visioni dell'Europeismo e su come affrontare la crisi
Non vi sono dubbi che tale evoluzione negativa basata sul primato delle ragioni dell’economia su quello della politica sia alla base di come la crisi è stata affrontata, privilegiando la ricetta dell’austerità su quella della crescita. Tale evoluzione è stata governata da una visione fondamentalmente liberista dell’europeismo, contrapposta ad una visione che interpreta l’europeismo in termini di economia sociale di mercato.
Il governo dell’Unione Europea, della sua politica economica in primo luogo, è stato appannaggio di una linea politica conservatrice. Anche indipendentemente dagli equilibri politici nei vari paesi, che sono mutati e continuano a mutare nel tempo, la sintesi emersa in ambito europeo è stata più affine al liberismo che al riformismo. Il prevalere della visione liberista ha condotto alla affermazione del rigore nel campo economico, alla supremazia dei mercati rispetto al mantenimento del welfare state che invece viene ridimensionato ed in qualche misura anche privatizzato, alla introduzione di vincoli sempre più stringenti nel campo delle politiche fiscali, alla deregolamentazione soprattutto del mercato del lavoro. In questa visione la competitività è soprattutto una carta da giocare sui mercati esteri ridimensionando i mercati interni, e deve essere realizzata utilizzando tutti gli strumenti di flessibilità possibili per accrescere la capacità di esportazione, svalutazione salariale anzitutto in presenza della moneta unica.
Non potendo più utilizzare lo strumento della svalutazione, alcuni paesi, Italia compresa, ne hanno sofferto più di altri, mentre la stabilità della moneta unica ha consentito di evitare ad altri ancora, Germania anzitutto, quella rivalutazione della moneta nazionale che certamente sarebbe avvenuta a seguito di avanzi sempre più cospicui dei loro scambi commerciali. Che ciò implichi una crescita contenuta, bassa e cattiva occupazione, crescita delle disuguaglianze, è in un certo senso un effetto collaterale, che può essere affrontato da un sistema di welfare minimale e da mercati che si preoccupano di sostituire al welfare pubblico quello privato dei sistemi assicurativi. Così avviene che la via suggerita dal liberismo moderno è quella che viene presentata come true progressivism, per distinguersi da quello errato a cui sarebbero ancora ancorati coloro che vogliono mantenere intatto, anche se riformato, il welfare state pubblico universalistico, tacciati quindi di conservatorismo.
È evidente che chi sostiene una visione europeista centrata sulla economia sociale di mercato, tra cui la socialdemocrazia europea, si muove oggi in un contesto molto angusto; e se rifugge da una facile quanto inefficace contrapposizione rispetto alla introduzione dell’euro, non può che procedere su strade che sono delimitate da vincoli e paletti, oltre che dalla dimensione della globalizzazione. Infatti, la internazionalizzazione dei mercati finanziari e le resistenze alla regolamentazione su scala globale contribuiscono alla adozione delle politiche di rigore per gli stati nazionali in ambito europeo in presenza della moneta unica. È cambiato il contesto nel quale le politiche di crescita possono operare.
Tuttavia, proprio nel presente contesto europeo sono possibili altre opzioni di politica economica, alternative a quelle del binomio liberista che associa rigore economico e riduzione del welfare. Lo dimostra il dibattito aperto dalla redazione di Sbilanciamoci.info con La Rotta d’Italia. Vincere per cambiare1, con i contributi di Gnesutta, Pianta (2013) sulla politica economica europea, di Pizzuti (2013) sulle priorità dell’economia italiana, di Bogliacino (2013) sull’Europa centrale e periferica, di Baranes (2013a) sul sistema finanziario, di Andreis (2013) sull’economia verde, tra i vari sin qui pubblicati.
Il dibattito in Europa è aperto, ed in Italia non possiamo «consumarci» nelle discussioni post-elettorali, quando proprio in Europa i partiti e movimenti democratici e socialisti (iAGS, 2012, EuroMemoGroup, 2012) indicano che un’altra Rotta è possibile. Partendo dalla dimensione europea possono essere individuate almeno sette azioni cardine su cui come sostenitori della visione di una Europa economica e politica, sociale di mercato dobbiamo lavorare. Queste consentirebbero all’Europa, e quindi all’Italia, di riprendere quel sentiero di crescita che ha come obiettivo principe la piena occupazione ed il benessere collettivo. Solo nell’ambito di queste azioni cardine si aprono le possibilità di intraprendere specifiche politiche dal lato della domanda ed anche dell’offerta per conseguire crescita e occupazione.
1) Occorre estendere competenze, poteri e strumenti della Bce in modo che questa operi come effettiva Banca Centrale che ha il precipuo compito non solo di controllare la dinamica delle variabili monetarie che influenzano la dinamica dei tassi di interesse ma anche quella di garantire condizioni di robustezza e solidità della moneta unica sui mercati internazionali ponendo al riparo le politiche fiscali, garantendone l’efficacia, dalla speculazione sui mercati finanziari. In altri termini la Bce deve essere posta nelle condizioni di operare come «prestatore di ultima istanza» non avendo come unico obiettivo la stabilità dei prezzi.
2) Occorre che a livello comunitario gli investimenti pubblici finanziati sui bilanci nazionali, anche in funzione anticiclica, siano consentiti e non vincolati dalle regole poste dal Trattato sulla stabilità, coordinamento e governance nell’unione economica e monetaria del marzo 2012 (Patto di Bilancio Europeo/Fiscal Compact), al fine di poter utilizzare la politica fiscale per contrastare la crisi e favorire la crescita.
3) Occorre realizzare l’emissione di eurobonds, secondo le diverse tipologie. Alcune di queste sono dedicate a finanziare progetti europei di ampia dimensione che possano innescare crescita quantitativa e qualitativa delle economie europee, quali quelli per sostenere l’economia digitale, l’economia verde, l’economia della conoscenza. Altre tipologie di eurobonds devono essere utilizzate per stabilizzare la gestione dei debiti pubblici nazionali e creare un mercato ampio di titoli pubblici europei basati su garanzie reali, come molti economisti hanno da tempo suggerito.
4) Occorre ampliare la dimensione del bilancio pluriennale pubblico europeo che ora pesa solo l’1% del prodotto interno lordo dell’insieme degli Stati membri, su cui la negoziazione è ancora in corso tra Commissione, Consiglio, e Parlamento europei. L’innalzamento del budget a disposizione della Commissione Europea, contrastando le politiche di quanti invece vogliono ridurlo, consentirebbe di supportare interventi più robusti sia per il riequilibrio strutturale tra i paesi dell’Unione, sia per progetti infrastrutturali nel capitale fisico e nel capitale intangibile.
5) Occorre accelerare la realizzazione dell’armonizzazione fiscale in ambito comunitario volta a rendere omogenei i regimi fiscali applicati in ciascun paese membro dell’Unione. La presenza di sistemi fiscali molto differenti costituisce un evidente incentivo a praticare politiche nazionali competitive e non cooperative tra gli Stati membri dell’Unione, e riducono evidentemente l’efficacia delle politiche fiscali, di quelle industriali e delle politiche del lavoro.
6) Occorre finalizzare le iniziative di coordinamento delle politiche economiche degli Stati membri non solo sugli obiettivi di consolidamento dei debiti nazionali, il cui timing deve essere rivisto, ma anche sulla riduzione degli squilibri dei flussi commerciali tra gli Stati membri. Gli squilibri dei flussi commerciali costituiscono una delle principali cause all’origine delle tensioni sulla moneta unica. Le politiche di coordinamento devono operare non solo sui paesi con deficit strutturali, chiedendo a questi di realizzare riforme strutturali dei loro mercati interni, ma soprattutto sui paesi con avanzi strutturali delle loro bilance commerciali, per indurli a sostenere la loro domanda interna e non affidare la crescita solo all’espansione dei mercati esteri.
7) Occorre intervenire sul sistema bancario, accrescendone il controllo, al fine di ridurre il rischio sistemico con strumenti sia di tipo fiscale (tassando specifici strumenti finanziari e transazioni) che di tipo regolativo (vietando specifiche attività e transazioni), facendo molto meno affidamento sugli strumenti della «ponderazione del rischio» e della «capitalizzazione» che si sono dimostrati in gran parte inefficaci se non anche controproducenti (introdotti con Basilea 2 e Basilea 3). Il sistema bancario ha perso le sue funzioni complementari all’economia reale, per il sostegno delle imprese e delle famiglie, ed è diventato pressoché autoreferenziale, una sorta di un casinò globale, essendo venuta meno da decenni la separazione tra attività bancaria di deposito e l’attività bancaria di rischio che era stata introdotta a seguito delle crisi bancarie di inizio secolo scorso. Perché il credito ritorni ad essere funzione dell’economia reale, occorre ripristinare, nelle nuove condizioni odierne, quella separazione.
Conclusioni
Crediamo che ogni progetto di politica economica nazionale, per quanto ambizioso esso sia, debba misurarsi con le due visioni dell’Europa e con le sette azioni cardine di cui sopra, e misurarsi con la necessità di intervenire per cambiare l’Europa che abbiamo. Gli Stati Uniti d’Europa rimangono e devono rimanere la meta verso la quale indirizzare la politica e l’economia. L’Europa che abbiamo è però purtroppo quella nella quale la moneta unica, per gli errori intrinseci nella sua nascita, impone vincoli e regole che devono essere cambiati quanto prima.
L’Italia che esce dalle elezioni dovrà lavorare molto in Europa perché si realizzino tali cambiamenti. Poche opzioni politiche oggi presenti nella campagna elettorale offrono tale prospettiva. Il centro-destra, con quel poco di centro che è rimasto, offre solo una prospettiva confusa e di deriva populista, i cui rischi sono cresciuti con il «patto di convenienza» tra berlusconiani e leghisti, attestato dalla proposta, tanto vincolante per l’alleanza quanto strampalata per l’Italia, del 75% delle imposte che devono rimanere nelle regioni del nord. Il montismo ha dato prova nell’ultimo anno di offrire una ricetta neppure tanto liberista, essendo intervenuto molto sulle tasse (alzandole in modo diseguale), poco sulle spese (proseguendo spesso nella pratica dei tagli lineari), quasi per nulla sulla concorrenza dei mercati (dove in alcuni casi ha garantito il mantenimento di posizioni di rendita), per non menzionare i temi «crescita», «disuguaglianza», «diritti e tutele» che non sono mai stati all’ordine del giorno e sono relegati ai margini dell’Agenda Monti. Il centro-sinistra è l’offerta che potenzialmente lascia intravvedere prospettive nazionali di cambiamento in una Europa che deve essere riformata, e che potrebbe avere il peso e la forza per realizzarle, se premiata dagli elettori. Dobbiamo solo sperare che, in caso di successo, abbia anche la coerenza per farlo. Sappiamo bene, purtroppo, che negli ultimi 20 anni non sempre ciò è avvenuto. Anzi!

(1) http://www.sbilanciamoci.info/Sezioni/alter/La-rotta-d-Italia-16276.
Il testo pubblicato costituisce l'introduzione del libro di Paolo Pini, "Lavoro, contrattazione, Europa. Per un cambio di rotta" (Ediesse Edizioni, pagine 256, 13 euro)

Ma che cos'è questa crisi

di Marcello De Cecco - sbilanciamoci -
 
Da dove origina e dove rischia di condurci la crisi che da sei anni affligge i principali paesi sviluppati? Che cosa accadrà dell'Europa e dell'euro? Pubblichiamo l'introduzione dell'ultimo libro di Marcello De Cecco, Ma che cos'è questa crisi, edito da Donzelli
La crisi affligge da sei anni i principali paesi sviluppati. Essa ha colpito il cuore dell’economia mondiale dopo avere investito, nel 1997-98, i paesi emergenti, specie quelli asiatici. Ora, secondo tradizione, pare voler abbracciare nella sua stretta mortale anche loro, che nell’attuale convulsione sembravano essere stati risparmiati e mostrare anzi un’invidiabile capacità di crescere e prosperare, malgrado le traversie del centro.
Da questa enorme convulsione l’economia ma anche gli assetti politici mondiali usciranno completamente cambiati. Non sappiamo cosa accadrà dell’Europa e dell’euro e nemmeno sappiamo quanto del cosiddetto modello europeo di organizzazione economica e politica sopravvivrà. Sappiamo che gli equilibri mondiali ne usciranno profondamente mutati, con l’ascesa che sembra inarrestabile della Cina e con il certo declino relativo dei paesi del centro: Europa, Stati Uniti e Giappone.
Che una grande crisi si stesse scatenando si poteva prevedere certamente nel 2007. Affermai che eravamo alla vigilia di un enorme sommovimento mondiale, nel maggio di quell’anno, a conclusione di una lezione che tenni all’Università di Waterloo, in Canada. C’era già stata qualche avvisaglia nelle difficoltà annunciate in febbraio da un paio di istituzioni finanziarie americane, che dichiaravano di avere problemi nel settore dei mutui subprime, una categoria della quale tutti sarebbero venuti a conoscenza di lì a qualche mese, ma che suonava ancora assolutamente sconosciuta ai non addetti ai lavori e anche a parecchi degli addetti.
Nella mia lezione canadese feci notare come la situazione odierna avesse molte analogie con quella degli anni che precedettero la prima guerra mondiale. Allora la sterlina era la moneta internazionale, di un sistema che si basava ancora sull’oro. Ma la Gran Bretagna era un paese in declino. Le due superpotenze emergenti erano Stati Uniti e Germania, sebbene nessuno dei due ambisse a rimpiazzare la sterlina con la propria moneta come centro del sistema monetario internazionale. Ambizione che invece nutriva la Francia, la quale, nei suoi tentativi di sostituire il franco alla sterlina, dava instabilità al sistema, talvolta di proposito (nel periodo 1907-14 ci furono numerosi episodi che videro la Francia rimpatriare fondi dalla Germania per motivi politici, forzando quest’ultima a procurarsi l’oro e a impedirne l’uscita). Il dollaro sarebbe divenuto la moneta mondiale solo dopo la fine del secondo conflitto mondiale.
Nei primi quarant’anni del XX secolo, quindi, il sistema monetario internazionale era divenuto policentrico, il che ne accentuava l’instabilità e favoriva anche lo sviluppo di mercati e transazioni finanziarie basati sull’arbitraggio e la speculazione. In quei decenni si vide pure la fioritura di «innovazioni finanziarie» in parte basate su effettive innovazioni tecnologiche, come i cavi telefonici transoceanici e la radio, ma per la maggior parte frutto di invenzioni che avevano lo scopo di favorire la speculazione e aggirare i controlli finanziari e quelli fiscali.
Quella presente è una crisi che viene da lontano, certamente dai primi anni novanta, e che porta la firma delle autorità economiche e della grande finanza degli Stati Uniti. Anche gli europei e i cinesi ne hanno in qualche misura la responsabilità. Ma la massima colpa va addossata certamente alla determinazione americana di finanziare le proprie guerre al costo minore possibile in termini di interessi sul debito pubblico, tramite una politica monetaria estremamente espansiva e la dinamica abnorme delle istituzioni finanziarie private che essa permette, per non sopportare penose misure correttive di quella particolare gestione economica e politica. I comportamenti americani sono indotti anche dalla necessità di regolare l’economia privata per prolungare le fasi di crescita e di massima occupazione, cercando di contrastare i cicli che si formano nel sistema produttivo. Essi creano gli enormi deficit nei conti esteri degli Stati Uniti, cui corrispondono gli altrettanto grandi surplus nei conti esteri di paesi come quelli europei, la Cina e i paesi emergenti, le cui economie sono trainate in misura crescente dalle esportazioni. Anche questi paesi dividono la responsabilità della crisi con gli Stati Uniti, ma la vera variabile indipendente del sistema restano i comportamenti americani, che inducono tutti gli altri.
La crisi attuale è squisitamente finanziaria. La crescita abnorme delle sovrastrutture bancarie e delle altre istituzioni e mercati finanziari è assai difficile da sottovalutare, tanto essa è stata chiara, specie negli Stati Uniti ma anche altrove, a partire dai primi anni novanta. Era una tendenza assai presente anche nei decenni precedenti, ma negli ultimi due il settore finanziario è divenuto in tutti i paesi, specie quelli del centro, il Primum Mobile dell’intera economia, dotato di energia e volontà indipendenti e capace di sfruttare meglio degli altri settori tutte le innovazioni, specie nel campo dell’elettronica e delle comunicazioni, che si sono rese disponibili a velocità sempre maggiore.
Quando la crisi è scoppiata, tuttavia, propagandosi dagli Stati Uniti al resto del mondo sviluppato, ma coinvolgendo anche aree che avevano a malapena iniziato un percorso di sviluppo come l’Africa, l’economia reale è stata investita con vero furore, come si rileva dai dati della produzione e dell’occupazione. A risentirne sono stati gli strati meno protetti della popolazione, in particolare la cosiddetta classe media, che è entrata in sofferenza dopo quella dei lavoratori dell’industria, e che deve considerarsi, insieme ad essa, la vera sconfitta dalla crisi. Il guaio è che la classe media è la protagonista del «capitalismo dal volto umano», il capitalismo del welfare pubblico, e la sua nuova debolezza fa presagire quindi tempi di ferro per i rapporti sociali al centro del sistema economico mondiale. La sofferenza della classe media comporta quella dei settori di consumo che dalla sua domanda dipendono, i settori costruiti nell’applicazione del principio delle economie di scala: automobili ed elettrodomestici, ad esempio, mentre vengono esaltate le produzioni dei beni di grande lusso, riservati alla minuta categoria dei ricchi e degli straricchi, che ha visto le proprie sorti addirittura migliorate dalla crisi attuale.
Altra grande vittima della crisi è stata l’integrazione europea, che è chiaramente in ritirata dal 2007, mentre sembrava aver colto, con l’introduzione dell’euro, un successo importante e duraturo. La crisi ha spaccato l’Europa in tre: ci sono i paesi del centro, come Germania, Finlandia, Austria e (seppur pencolante) l’Olanda; c’è poi un’area appena fuori del centro, che comprende essenzialmente la Francia, secondo paese d’Europa; e poi c’è la periferia, una categoria nuova e sofferente, alla quale appartengono Italia, Grecia, Irlanda, Spagna e Portogallo.
Immediatamente prima dello scoppio della crisi, anche per il rifluire del surplus tedesco sotto forma di investimenti nell’area periferica, si era sperato in una maggiore, anziché minore, omogeneità nelle condizioni economiche dell’intera area europea. La crisi ha mandato a fondo tali speranze, costringendo l’Europa a prendere misure di emergenza, secondo il peggiore stile europeo negoziate con mille lungaggini ed esitazioni, e assunte come olio di ricino dai paesi in surplus.
Nelle pagine che seguono, che riproducono alcuni degli articoli da me pubblicati sulla «Repubblica» in questo periodo1, ho cercato di toccare tutti questi temi, poiché essi si sono presentati con una urgenza e una drammaticità cui non eravamo abituati dalla fine della seconda guerra mondiale. Ad essi non si poteva sfuggire. Anche quelli che hanno cercato di farlo, creandosi, come gli economisti ortodossi, un proprio mondo virtuale, lo hanno visto mandato in frantumi dalla crisi e sono dovuti tornare a usare modelli di pensiero meno rarefatti. Ma, ogni volta che il clima dell’economia mondiale sembra indicare il ritorno a un qualche stato di maggior quiete, ecco gli economisti ortodossi tornare verso il loro mondo virtuale, cercando di ricostruirlo. Il che è sommamente pericoloso, perché è stata proprio l’autorevolezza dell’economia ortodossa a suggerire soluzioni errate alle classi dirigenti dei paesi del centro, con drammatiche conseguenze che hanno reso più grave la crisi.
Di fronte al perdurare della crisi più grave degli ultimi centoventi anni, in mancanza di soluzioni innovative suggerite dai teorici agli attori politici, la tendenza più forte sembra purtroppo essere quella a ricorrere a vecchie soluzioni che, a lungo tempo screditate, tornano a un tratto di moda e suggeriscono misure affrettate e pesanti perché prese in ritardo e senza accordo anche tra paesi appartenenti a unioni di Stati, come i paesi europei. Nazionalismo, protezionismo, regolamentazione dei mercati sono i nomi di queste soluzioni. Averle screditate e messe da parte per più di un cinquantennio come se si trattasse di pulsioni peccaminose e indegne di una nuova e superiore organizzazione internazionale è stato colpevole e persino stupido, perché in forma blanda esse dovevano rimanere in voga, persino il nazionalismo, mentre ora ci si trova a prenderle velocemente e in dosi assai maggiori, senza usufruire dei vantaggi che sarebbero derivati da dosi moderate, e correndo in pieno il pericolo di precipitare il mondo intero in un nuovo disordine internazionale con conseguenze economiche e politiche simili a quelle che indussero le due guerre mondiali e il marasma degli anni venti e trenta del Novecento.
La sgradevole sensazione di trovarsi in un periodo di profondo riflusso verso il nazionalismo e il razzismo è difficile da evitare, in Europa così come altrove. Appena liberati dall’autorità sovietica i paesi dell’Europa orientale, ad esempio, si sono dedicati a una vera e propria orgia di nazionalismo, infettando, a causa della loro forzosa integrazione nell’Unione europea, anche i vecchi membri di questa, che ne avevano assai poco bisogno, avendo iniziato un percorso meno esplicito ma altrettanto univoco nella stes- sa direzione.
Una nuova classe politica emergerà dalla necessità di questa netta virata nei paesi che dovranno effettuarla o anche solo subirla. Se dobbiamo basarci sulle esperienze degli ultimi cento anni, le previsioni sono necessariamente nefaste. Come ho detto sopra, stiamo tornando a tempi di ferro, come quelli che i miei coetanei hanno vissuto nella loro infanzia.
(1) Ringrazio il gruppo editoriale L’Espresso per avermi permesso di ripubblicare gli articoli usciti su «la Repubblica».
(Copyright Donzelli)
Il testo pubblicato costituisce l'introduzione dell'ultimo libro dell'economista Marcello De Cecco Ma cos'è questa crisi. L'Italia, l'Europa e la seconda globalizzazione (2007-2013) (Donzelli, 2013 pp. XVI-288, 18,50 euro)

No Renzi? No Civati? No Grillo? Allora sei un disadattato politico

ALESSANDRO ROBECCHI –

arobecchiCome dicono sui banchi delle migliori istituzioni italiane, “prendo la parola per fatto personale”. Scusate lo sfogo. L’altarino a cui chiedo illuminazione ogni tanto, quello con le fotine di Flaiano e Beppe Viola, non basta più e mi sa che il prossimo passo sarà l’esorcismo. Qualcuno deve fare qualcosa per noi disadattati politici, prima o poi. Dunque ecco i fatti.
Scrivo che non mi piace Renzi. Sei cuperliano. Cuperlo non mi convince. Sei civatiano. Mah, avrei da ridire. Allora sei grillino. Ma manco per niente. E dillo, stai con Nichi. Ma veramente… Ah, sei per le larghe intese! Non offendiamo. Non mi piace il cool, il glamour, il frou frou. Allora sei vecchio. Mi piace la parola “diritti”. Uh, come sei vetero! Non mi piace il populismo. Ah, allora sei kasta! Zombie. Morto. Ma naturalmente non mi piacciono nemmeno il furto e lo spreco di denaro pubblico. Ah, sei anti-politica, dunque! O vuoi le privatizzazioni? No. Ah, vile statalista! Non mi piace quello che ha fatto la Cancellieri. Ah, quindi sei giustizialista. O renziano? Non mi piace nemmeno il sindaco di Salerno De Luca, si può dire? Ah, lo dici per attaccare Renzi! Allora stai con D’Alema…
Potrei andare avanti ore e sono sicuro che molti di voi hanno lo stesso problema, specie quelli che si collocano a sinistra e frequentano i social media. Quando in un giorno solo ti senti dare del vetero-comunista, del grillino, del cuperliano, del renziano, del garantista (dai giustizialisti) e del giustizialista (dai garantisti), spesso a distanza di pochi minuti e a volte persino dalle stesse persone, finisce che rivaluti la psicoanalisi. Una volta ho detto che Renzi viene dai Popolari e dalla scuola democristiana. Una mi ha risposto che è meglio che venire “dai ghiacci sovietici” come me. Va bene sentirsi politicamente non rappresentato, succede, ma sentirsi orso polare fa un certo effetto. Uno mi ha detto “turigliattiano”, che non sapevo se cercare su Wikipedia o buttarmi dal balcone. Poi dicono che uno si dà all’alcol. Se dici Keynes ti chiedono: dove gioca? Preferisco Cristiano Ronaldo.
La spasmodica necessità di definirsi (e di definire gli altri) sotto una o l’altra bandiera, senza dubbi, senza se e senza ma, crea smottamenti di senso, testacoda e derapate improvvise. Per i renziani è inconcepibile che uno sano di mente non sia renziano. Per i grillini è nemico o in malafede, o pagato da qualcuno chi non è grillino. Non ti piace il governo Letta, allora sei la morte nera. Uno, nell’infuriare della polemica è sbottato: “Ma insomma, cosa sei?”. Come dire, ehi, amico, mettiti una divisa o almeno una medaglietta, altrimenti non saprò come scovarti, o contraddirti o provocarti o polemizzare con te.
Come si vede, è un bel problema. Prima, per anni, si deplorano le ideologie, si implora di superarle. Poi si formano alcune decine di microideologie, quasi sempre con pochissime idee, peraltro, a cui sarebbe meglio adeguarsi, almeno per comodità di dibattito. Nel frattempo, i ricchi diventano più ricchi, i poveri diventano più poveri, i giovani sono disoccupati, la Biancofiore si ostina a parlare in pubblico, mister Agrama fa ridere tutti e le galere sono strapiene di gente che potrebbe stare fuori. Ecco sei demagogico. O ideologico. O pittelliano (eh?). O populista. O induista ascendente interista. Stai con D’Alema, anzi no, bersaniano con la luna in Sagittario. Anzi civatiano del settimo giorno, anzi… renziano del dissenso, anzi, lettiano del consenso, e vieni dai ghiacci sovietici e ti sei anche, un filino, rotto i coglioni.
Alessandro Robecchi
(27 novembre 2013)

mercoledì 27 novembre 2013

Vent’anni ci sono voluti.

No, non mi cambia la vita la decadenza del satrapo lombardo. Non brindo, non rido, non festeggio. Ha rubato i miei venti e i miei trent’anni e vorreste che vi dicessimo bravi, voi burocratini del Partito democratico col sedere al caldo. Ha smantellato pezzo per pezzo la nostra democrazia, ha corrotto persone e costumi, manipolato coscienze. Ha comprato corpi e portato in alto i peggiori, spacciandolo per merito.

No, non sono contento e non vi dico bravi per aver fatto il minimo sindacale. Decade oggi ma non è mai stato eleggibile. Vent’anni ci sono voluti. Non dovevate farcelo entrare in Parlamento, quindi non sono contento che oggi ne esca. Era ineleggibile e non vi siete opposti. C’era un enorme conflitto d’interesse e avete trattato. Ci avete mangiato la crostata insieme e ancora dovete spiegare perché. Gli avete lasciato fare la grande porcata perché conveniva anche a voi autonominarvi invece che farvi eleggere. L’avete usato come foglia di fico per non dire mai, neanche per sbaglio, cose di sinistra. Ci avete fatto un governo insieme.

Vorreste che vi dicessimo bravi per avergli lasciato ridurre in macerie la nostra democrazia e il nostro paese. Costernato e rabbioso, non brindo, vorrei solo vedere scompariste anche voi, complici di regime. Simul stabunt simul cadent. Ma non succederà.

Gennaro Carotenuto
Fonte: http://www.gennarocarotenuto.it/
Link: http://www.gennarocarotenuto.it/27299-perche-non-brindo-alla-decadenza-di-silvio-berlusconi/
27.11.2013

Silvio Berlusconi è fuori dal Parlamento. Lui in strada: "E' un giorno di lutto"

Ore 17.42: il presidente del Senato Pietro Grasso ha dichiarato la decadenza da senatore di Silvio Berlusconi. Il Senato in precedenza aveva bocciato 9 ordini del giorno contro la decadenza

 
Roma, 27 novembre 2013 - Ore 17.42: il presidente del Senato Pietro Grasso ha dichiarato la decadenza da senatore di Silvio Berlusconi. Il Senato in precedenza aveva bocciato 9 ordini del giorno contro la decadenza. Con nove distinte votazioni sono stati respinti altrettanti odg contari alla presa d’atto della decadenza proposta dalla Giunta per le immunità e le elezioni di palazzo Madama, a seguito della condanna defintiva di Berlusocni per frode fiscale al processo Mediaset che la sentenza della Corte di Cassazione la scorsa estate ha reso defintiva. Silenzio al termine delle votazioni degli ordini del giorno. Solo i senatori di M5s hanno salutato con un applauso l’esito delle votazioni, mentre i parlamentari degli altri gruppi sono defluiti in silenzio dall’aula.
Berlusconi era entrato in Parlamento poco meno di vent’anni fa: nel marzo del 1994. Quando scese in campo creando Forza Italia e vinse le elezioni, entrando alla Camera per la prima volta da Presidente del Consiglio. Da allora Berlusconi è sempre stato rieletto a Montecitorio fino alle elezioni di questa primavera che lo hanno visto per la prima volta farsi eleggere al Senato. Che oggi lo ha congedato dal Parlamento. Con il voto odierno Berlusconi perde anche l’immunità parlamentare a cui più volte è ricorso in questi vent’anni.
SUBENTRA UN MOLISANO - Decaduto Silvio Berlusconi, per la mancata convalida della sua elezione nella regione Molise, gli subentra il primo dei non eletti nella stessa circoscrizione, ovvero Ulisse Di Giacomo, già assessore alla Sanità della terza giunta di Michele Iorio.
SILVIO IN PIAZZA - Nel giorno x della decadenza Silvio Berlusconi non partecipa alla seduta che lo espellerà dallo scranno senatoriale. Ma tenta comunque di ‘oscurare' il voto sulla decadenza previsto per le 17 parlando di fronte alla sua gente radunata a via del Plebiscito, come già era accaduto il 4 agosto all’indomani della condanna definitiva per il processo Mediaset: "E' un giorno amaro e di lutto". Berlusconi, dal palco, ribadisce l’accusa rivolta a Magistratura Democratica di aver avuto “legami con le Brigate Rosse”. Poi parla della sentenza sui diritti tv che, dice "grida vendetta davanti a dio e agli uomini’’: così Silvio Berlusconi nel suo comizio a via del Plebiscito. Quella sentenza, ha aggiunto, ‘’e’ basata solo su teoremi e congetture e su nessun fatto o documento o testimone’’. Da ore intanto è altissima la tensione davanti a Palazzo Grazioli per la manifestazione dei sostenitori del Cavaliere.

Per il papa il liberismo è una “tirannia” che svuota di potere gli stati

Pubblicato da keynesblog il in Economia, Global, ibt

papa-francesco-ha-origini-italiane
I media italiani ne hanno parlato poco, ma la nuova “esortazione apostolica” di papa Francesco, “Evangelii Gaudium” (La gioia del vangelo), contiene una potente critica al capitalismo finanziario. Cosa più rilevante, come vedremo, è che il nuovo pontefice non si limita ad un discorso generalmente moralistico, sebbene parta da considerazioni etiche la cui valenza che non può essere derubricata alla “predica” di un vecchio prete.

Scrive Bergoglio (enfasi nostra):
Così come il comandamento “non uccidere” pone un limite chiaro per assicurare il valore della vita umana, oggi dobbiamo dire “no a un’economia dell’esclusione e della inequità”. Questa economia uccide. Non è possibile che non faccia notizia il fatto che muoia assiderato un anziano ridotto a vivere per strada, mentre lo sia il ribasso di due punti in borsa. [...] Oggi tutto entra nel gioco della competitività e della legge del più forte, dove il potente mangia il più debole. Come conseguenza di questa situazione, grandi masse di popolazione si vedono escluse ed emarginate: senza lavoro, senza prospettive, senza vie di uscita. [...] Non si tratta più semplicemente del fenomeno dello sfruttamento e dell’oppressione, ma di qualcosa di nuovo: con l’esclusione resta colpita, nella sua stessa radice, l’appartenenza alla società in cui si vive [...]
Papa Francesco passa poi a criticare la dottrina della “ricaduta favorevole” (trickle-down) secondo la quale il mercato è capace da solo di redistribuire le ricchezze, facendole “ricadere” dai ricchi verso i meno abbienti. Secondo i sostenitori di queste teorie, che andavano particolarmente di moda durante l’era Reagan-Thatcher e che hanno dato una copertura ideologica alle “riforme”, l’arricchimento di pochi è a beneficio di tutti. Bergoglio rifiuta questa impostazione liberista:
In questo contesto, alcuni ancora difendono le teorie della “ricaduta favorevole”, che presuppongono che ogni crescita economica, favorita dal libero mercato, riesce a produrre di per sé una maggiore equità e inclusione sociale nel mondo. Questa opinione, che non è mai stata confermata dai fatti, esprime una fiducia grossolana e ingenua nella bontà di coloro che detengono il potere economico e nei meccanismi sacralizzati del sistema economico imperante.
Da qui Bergoglio parte per un poderoso attacco alla finanziarizzazione dell’economia che individua l’origine della disuguaglianza nella negazione del controllo degli Stati sull’economia e sui mercati finanziari, accusati di essere una nuova “tirannia” che agisce tramite “il debito e i suoi interessi”:
Mentre i guadagni di pochi crescono esponenzialmente, quelli della maggioranza si collocano sempre più distanti dal benessere di questa minoranza felice. Tale squilibrio procede da ideologie che difendono l’autonomia assoluta dei mercati e la speculazione finanziaria. Perciò negano il diritto di controllo degli Stati, incaricati di vigilare per la tutela del bene comune. Si instaura una nuova tirannia invisibile, a volte virtuale, che impone, in modo unilaterale e implacabile, le sue leggi e le sue regole. Inoltre, il debito e i suoi interessi allontanano i Paesi dalle possibilità praticabili della loro economia e i cittadini dal loro reale potere d’acquisto.
Sul lato delle politiche, il testo sembra spesso limitarsi all’invocazione dei buoni sentimenti su base volontaristica: “i ricchi devono aiutare i poveri, rispettarli e promuoverli. Vi esorto alla solidarietà disinteressata”. Ma l’impressione dura poco e Bergoglio diventa subito “politico”:
Non possiamo più confidare nelle forze cieche e nella mano invisibile del mercato. La crescita in equità esige qualcosa di più della crescita economica, benché la presupponga, richiede decisioni, programmi, meccanismi e processi specificamente orientati a una migliore distribuzione delle entrate, alla creazione di opportunità di lavoro, a una promozione integrale dei poveri che superi il mero assistenzialismo. Lungi da me il proporre un populismo irresponsabile, ma l’economia non può più ricorrere a rimedi che sono un nuovo veleno, come quando si pretende di aumentare la redditività riducendo il mercato del lavoro e creando in tal modo nuovi esclusi.[...]
Bergoglio infine invoca la rimozione delle ineguaglianze come “riforma strutturale” del capitalismo, sottolineando ancora che senza di ciò arriveranno nuove crisi (come del resto una parte considerevole della professione economica sostiene da tempo):
La necessità di risolvere le cause strutturali della povertà non può attendere, non solo per una esigenza pragmatica di ottenere risultati e di ordinare la società, ma per guarirla da una malattia che la rende fragile e indegna e che potrà solo portarla a nuove crisi. I piani assistenziali, che fanno fronte ad alcune urgenze, si dovrebbero considerare solo come risposte provvisorie. Finché non si risolveranno radicalmente i problemi dei poveri, rinunciando all’autonomia assoluta dei mercati e della speculazione finanziaria e aggredendo le cause strutturali della inequità, non si risolveranno i problemi del mondo e in definitiva nessun problema. L’inequità è la radice dei mali sociali.
Non si tratta, è evidente, di iscrivere Francesco alla “sinistra”, tanto meno a quella “anticapitalista”. Piuttosto l’Evangelii Gaudium dovrebbe far riflettere quanti, nominalmente a sinistra e magari provenienti dal PCI, sono stati scavalcati a sinistra dal papa.
Il testo dell’esortazione “Evangelii Gaudium” di papa Francesco.

martedì 26 novembre 2013

Seattle: L'incredibile vittoria di Kshama Sawant


| Fonte: Counterpunch | Autore: TOM BARNARD

 

Dal sito di sinistra radicale americano Conterpunch vi proponiamo la traduzione di un articolo che racconta e commenta l'elezione a Seattle di una consigliera comunale dichiaratamente socialista.

COME HA FATTO

L'incredibile vittoria di Kshama Sawant

Quella di domenica è stata una festa per la vittoria meritata. Il suo sfidante, Richard Conlin, quattro volte in carica e con tutti gli appoggi dell'1% dietro di lui, aveva ufficialmente ammesso la sconfitta. Per celebrare la clamorosa vittoria in rimonta, più di 300 fra i più fedeli volontari della campagna elettorale, attivisti, veterani dei movimenti contro la guerra e di altre lotte passate hanno rumorosamente festeggiato in una sede locale del sindacato la vittoria della nostra candidata, Kshama Sawant, una socialista con una piattaforma a favore del 99%. E lei si è assicurata di rimarcare il risultato. “Il potere ora è nelle nostre mani – oggi abbiamo portato il cambiamento”. La folla ha risposto con ovazioni, brindisi, urla di gioia. Perchè la maggior parte di loro aveva capito che con questa elezione avevano rovesciato il modello elettorale di Seattle, con compiacenti sgherri delle corporazioni che si presentavano come sorridenti liberal.

Seattle è una città dominata da un solo partito come poche ce ne sono in America, il centro blu dello Stato di Washington. Ci sono alcuni infallibili metodi per essere eletti qui, che consistono tutti nel rendersi utili ai potenti stanno bene attenti a pronunciare, nello stesso tempo, banalità progressiste. Ci sono un paio di coerenti esponenti liberal del consiglio, ma il modello di votazioni per consenso utilizzato all'interno del consiglio fa si che essi si mantengano garbati nei confronti del potere delle corporazioni. Una raccomandazione qui, un voto contestato lì, e gli affari proseguono come sempre – fino ad oggi.

Oggi noi abbiamo una socialista come consigliera cittadina, e non è in debito con nessuno dei soliti noti. Non con Paul Allen e la sua Vulcan, non con la Burlington Northern Santa Fe, l'impresa ferroviaria che promette l'arrivo di diciotto treni carichi di carbone al giorno, non con giganti dell'industria edilizia come Wright Runstad, tutti i principali contribuenti di Conlin. No, le uniche persone con cui Kshama Sawant è in debito sono i sottopagati, gli esclusi, i disoccupati, gli indebitati. Ovvero tutti coloro che l'hanno aiutata a infrangere le regole convenzionali della politica di Seattle e a guadagnare un posto nel Consiglio Cittadino di Seattle con un risultato finale del 51% contro il 49 dell'avversario, nonostante le proiezioni notturne che la davano per sconfitta e le previsioni della stampa di regime.

Ma allora, come ha fatto, e cosa possiamo imparare da questa impresa? Ecco alcuni degli insegnamenti migliori:

In una città dominata dal Partito Democratico, è possibile scendere in campo con successo contro i Democratici.

Una cosa del genere sembra bislacca, quasi controintuitiva. Poiché è una città dominata da un solo partito, uno ne dovrebbe dedurre che quel partito è più forte, non più debole. Eppure Kshama ha demolito questo assunto non una volta, ma due. E come ha potuto riuscirci? Semplicemente sottolineando come in una città dominata da un solo partito questo partito deve per sua natura servire gli interessi delle élite corporative che controllano la città, e poi dimostrandolo. Lei ha affermato: “La macchina dei democratici governa questa città completamente nell'interesse dei ricchi e dei potenti”, notando come Conlin fosse “un politico-zerbino delle corporazioni”. Cosa che infatti, con il procedere della campagna elettorale, è diventata sempre più evidente. Conlin ha raccolto donazioni da ogni singola corporazione possibile e immaginabile, grandi uffici immobiliari, agenzie legali del centro, magnati delle costruzioni, proprietari delle ferrovie e così via. E più soldi raccoglieva da loro, più l'argomento centrale contro di lui diventava concreto. Nel mese finale della campagna, con l'esaurimento dei fondi messi a disposizione dalle corporazioni e la crescita dei piccoli donatori in favore di Kshama, lei ha raccolto più donazioni di lui. Cosa che ci porta alla seconda lezione:

La difesa fa vincere le battaglie. L'attacco fa vincere le guerre.

Altri candidati hanno basato la propria campagna elettorale sui temi della giustizia sociale, alcuni anche abbastanza bene. Ma per la maggior parte, essi si muovevano all'interno del terren politico prestabilito. Più soldi per gli aiuti ai senzatetto. Esenzioni delle tasse ai costruttori, in modo che essi potessero costruire case un pochino più economiche. Un bilancio pubblico che non tagliasse troppo le spese per i servizi sociali. Una politica ambientale un po' migliore, rinforzata con carote e non con bastoni. Rendendo le attuali realtà politiche ed economiche un po' più vivibili attraverso una politica realistica.

Kshama ha oltrepassato questa concezione impostando per proprio conto la sua agenda politica, e quindi andando all'offensiva giocandosi tutte le sue carte. Un salario minimo orario di 15 dollari. Una tassa sui redditi alti. L'istituzione dell'equo canone. Una piattaforma che veniva giudicata “irrealistica” e “troppo di sinistra per Seattle”. Lei non ha badato troppo a queste obiezioni, non ha ammorbidito la sua piattaforma e ogni dibattito che ha avuto con Conlin, ogni discorso, ogni articolo pubblicato sui giornali era incentrato su quel programma, specialmente sul punto del salario minimo. La strategia ha funzionato. Alla fine della campagna, Conlin è stato costretto quantomeno a fingere di essere in favore di questa, e, incredibilmente, entrambi i candidati sindaco hanno dovuto anch'essi sottoscriverla.

Gli endorsements tradizionali non fanno più la differenza.

Conlin ha ricevuto tutti i tradizionali endorsements che i candidati abitualmente ricevono: le sezioni locali del Partito Democratico, il Seattle Times, diversi sindacati, grandi organizzazioni ecologiste come i Washington Conservation Voters, assieme con una raffica di appoggi da altri politici che ricoprivano cariche ufficiali. Kshama ha ottenuto solamente quelli di un paio di sezioni locali del sindacato e dello Stranger, un giornale locale letto dai giovani, dai radicali e dai gay. Ma, come una fortezza logorata, più la campagna andava avanti, più il supporto tradizionale veniva minato. Prima è arrivata la defezione di alcuni importanti esponenti democratici, persone che avevano passato decenni appoggiando e supportando la macchina democratica a livello locale. E che non si sono intimoriti quando gli alleati di Conlin li hanno chiamati traditori. Quindi, il voto per l'endorsement del King County Labor Council, normalmente una passerella per i candidati liberal, è finito 28-21 per Kshama, non abbastanza per l'endorsement dei 2/3, ma sufficiente per causare una serie di titoloni sui giornali e per provare l'impotenza di Conlin. La notte dello scrutinio, nessuno si aspettava altro da una competizione all'ultimo voto.

Coi soldi si vince solo fino a un certo punto.

Nonostante Conlin abbia comunque speso più di Kshama per la campagna elettorale, il suo vantaggio è svanito quando lei è stata in grado di sfruttare la combinazione fra il bottino di donazioni da 120 dollari fatte dai piccoli donatori e la persistente attenzione dei media per portare avanti una campagna aggressiva, e costringere Conlin sulla difensiva. Se tu sei stato additato come un servo delle corporazioni, a un certo punto, pagare per un altro massiccio invio di materiale pubblicitario ricorda solo ulteriormente alle persone chi sei.

Occupy è morta; lunga vita a Occupy!

Ricordiamo tutti che quando le accampate finirono i politici e la stampa esultarono sostenendo che gli attivisti di Occupy non avevano avuto alcun impatto durevole, scomparendo come nebbia al sole del mattino. Parrebbe non sia stato così. A Seattle, quelle sono state le persone che hanno formato la base non solo per la campagna della Sawant, ma anche per altre questioni come le lotte contro i treni che trasportano carbone e contro la disoccupazione. Sono impegnati su diversi fronti in contemporanea, ma sono continuamente attivi.

L'organizzazione partitica combinata all'entusiasmo delle masse genera risultati.

Con l'infiammarsi della campagna, diversi analisti hanno provato a sostenere che il suo forte e crescente supporto non avesse nulla a che fare con la sua organizzazione, Alternativa Socialista, o addirittura che lei fosse popolare nonostante quella. La realtà è però più complessa. Da una parte, la Sawant ha corso con una piattaforma con cui ogni lavoratore può identificarsi – certamente non c'è bisogno di essere socialisti per supportare un salario minimo di 15 dollari orari, l'equo canone o una tassa sui ricchi. E lei ha sfruttato questo fatto più che poteva per guadagnarsi il favore di ampi ranghi di liberal, normali sindacalisti e giovani.

Allo stesso tempo, l'avere un partito dietro di lei le ha permesso di condurre una campagna ben organizzata e disciplinata nel suo nucleo. Membri chiave di Alternativa Socialista hanno svolto importanti funzioni durante la campagna, fin da quando, all'inizio, appareva nient'altro che una bislacca contendente senza speranze, radunando volontari, utilizzando strategicamente i mezzi informatici e raccogliendo le prime donazioni. Questo nucleo divenne di 50, poi 100, e infine di più di 200 attivisti di ogni provenienza. Ma il nucleo primario di militanti di Alternativa Socialista ha avuto almeno una parte del merito di ciò.

La lotta continua.

E ora? Bene, ecco cosa non succederà. Il nuovo Sindaco ha detto che prenderà provvedimenti per domandare un salario minimo di 15 dollari orari entro la fine del suo mandato quadriennale. Nessuno ci spera, specialmente dato che la sua squadra ha dietro di sé l'1% di Seattle. Kshama ha detto loro che lei sarebbe felice di scrivere l'ordinanza per questo provvedimento. Loro hanno risposto che hanno in programma lo studio della questione. Si, grazie.
Quello che sta veramente per succedere è una storica campagna di massa per l'ottenimento del salario minimo orario a Seattle. Che inizierà con una manifestazione la prossima primavera che rappresenterà l'inizio della lotta, approvata a Novembre di quest'anno tramite il voto popolare. Questo richiederà molto lavoro da parte di molte persone. Per quanto fantastici siano stati i volontari che hanno contribuito a far eleggere Kshama, ora ne abbiamo bisogno di dieci volte tanti. Le persone che governano questa città useranno contro di noi qualsiasi cosa potranno usare. Dagli attacchi personali a Kshama, a contro-iniziative, all'agitare lo spettro della bancarotta nei confronti di ogni piccolo risparmiatore che riusciranno a convincere. Perché hanno capito quale è la posta in gioco. Che non è solo quella di fornire alle migliaia di lavoratori sottopagati di questa città qualcosa di simile ad un salario di sopravvivenza. È qualcosa addirittura di più importante. Che è quella di far decidere ai lavoratori cosa succederà, e quando. Ci vediamo alla manifestazione.

[traduzione di Federico Vernarelli]

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