Ο παγκοσμοποιημένος καπιταλισμός βλάπτει σοβαρά την υγεία σας.
Il capitalismo globalizzato nuoce gravemente alla salute....
.... e puo' indurre, nei soggetti piu' deboli, alterazioni della vista e dell'udito, con tendenza all'apatia e la graduale perdita di coscienza ...

(di classe) :-))

Francobolllo

Francobollo.
Sarà un caso, ma adesso che si respira nuovamente aria fetida di destra smoderata e becera la polizia torna a picchiare la gente onesta.


Europa, SVEGLIA !!

Europa, SVEGLIA !!

sabato 28 settembre 2013

Mélenchon: Germania, un voto di egoismo nazionale

   
Mélenchon: Germania, un voto di egoismo nazionale

Pubblicato il 27 set 2013

www.controlacrisi.org –
I risultati delle elezioni tedesche sono un evento la cui portata attraverserà l’intera Unione europea. La politica liberista più dura è incoraggiata. Essa quindi si amplificherà. Le ripercussioni sociali pure. I lavoratori tedeschi devono riconoscere che l’età pensionabile a 70 anni è ragionevole, che un euro per un’ora di lavoro è forse troppo, e così via. In tutta l’Europa dell’Est, dove si producono i pezzi che i tedeschi assemblano alla fine del percorso, tutti sono tenuti al detto: zitto e lavora. Così non finiremo di sentire i pappagalli dei media ripetere la favola del “modello tedesco”. Da parte loro i greci possono prepararsi a vendere il mare che li circonda, i portoghesi l’aria che respirano. Per quanto riguarda i francesi, da due mandati presidenziali hanno già un burattino sul groppone, che annuisce il capo ad ogni scossa: la signora ha solo bisogno di dare gli ordini e sarà obbedita.
Dopo tutto, se la gente lo ha voluto, cosa dire? Questo: questa politica sta preparando una catastrofe per i cittadini europei. Ha incoraggiato i tedeschi a credere che milioni di europei, già sottomessi al pugno di ferro della politica imposta dal loro paese, continueranno a subire abusi e insulti con gratitudine e riconoscenza. È anche possibile che molti tedeschi ritengano che il loro voto sia quello dell’intera Europa. Questa però non è la situazione reale, e servirebbe che qualcuno glielo dica. La signora Merkel e i suoi gruppi della terza età non sono un modello per nessuno. Il voto ci mostra l’opinione di una maggioranza che invecchia, spaventata, senza la visione o il gusto del futuro, dal momento che non ha la giovinezza per preoccuparsene. Si tratta di un voto egoista. Il “modello tedesco” della signora Merkel, per definizione, non può essere generalizzato in quanto si basa sul dumping sociale e sull’esportazione di prodotti che elimina la produzione degli altri paesi. Il “modello tedesco” è quello di spremere tutti i popoli europei, in modo da pagare i dividendi dei grandi finanzieri e le pensioni dei vecchi tedeschi della classe medio-alta. Il voto di domenica non è quindi un buon voto per l’Europa. In primo luogo perché incoraggia una politica nazionale che colpisce profondamente i popoli che la costituiscono, ad esclusivo beneficio di uno di loro. In secondo luogo, perché alimenta l’arroganza di una classe dirigente convinta di essere un modello per gli altri paesi e di detenere una verità che gli altri devono necessariamente accettare. I leader della destra tedesca, che già parlavano molto male degli europei, non si tratterranno più. Infine, perché questa politica conduce l’Unione europea ad un’esplosione sociale e politica e, tra poco, a un’ondata di nazionalismo. O a noi.
Ma possiamo avere una Germania senza la Merkel? Dove è l’opposizione? Cosa dice? Questa è l’altra faccia del risultato. La grande SPD e le sue “soluzioni moderne” sono diventate il piagnucolio compassionevole della grande famiglia liberale. Ricordiamoci che questo partito prese il posto dell’inetto Partito Laburista britannico per guidare la trasformazione della socialdemocrazia globale nel Partito Democratico. Dopo Blair, Gerhard Schröder divenne “l’amico dei padroni.” In Europa ha promosso uno dopo l’altro una serie di manifesti politici “moderni” in compagnia del suo amico Tony, e di tutti gli altri curatori fallimentari della socialdemocrazia, come l’ectoplasma post-comunista italiano D’Alema e Papandreou del PASOK. Le sue politiche ferocemente neoliberiste valsero la fuoriuscita di Oskar Lafontaine dalla SPD e la fondazione della Die Linke. Gli elettori diedero l’ultima parola: la SPD passò dal 41% al 34%. Nacque allora la grande coalizione tra SPD e la destra, perché la SPD rifiutò una coalizione con la Die Linke. Risultato: alle elezioni successive la SPD precipita al 23%. Oggi è arrivata fino al 25% dopo quattro anni di “opposizione”. Questo è il suo secondo peggior risultato dal dopoguerra. La SPD è una stella morta. Andrà in una grande coalizione, a meno che i Verdi tedeschi non la precedano.
Questo è il secondo segnale negativo dell’elezione tedesca. Sulla carta ci sarebbe una maggioranza di seggi alla Camera per una maggioranza tra Verdi, SPD e Die Linke. Ma chi ci pensa? Eppure c’è la maggioranza assoluta dei deputati dei partiti SPD-Verdi-Die Linke al Bundestag, e c’è una maggioranza SPD-Verdi- Die Linke nel Bundesrat (la seconda camera, composto da rappresentanti dei governi dei Länder) e ci sono coalizioni regionali tra SPD e Die Linke, come ad esempio nel Land di Brandeburgo, il più grande dell’ex Germania dell’Est. Eppure, non ci sarà nessuna coalizione. Immaginate se in Francia io, la sera del primo turno delle elezioni presidenziali, non avessi fatto appello a votare Hollande per cacciare Sarkozy? In Germania, Hollande e i suoi amici preferiscono la Merkel a un’alleanza con noi! Eppure Die Linke tende la mano. E io sono d’accordo. Perché si tratta prima di tutto della dimostrazione dello spirito di alternativa che la anima, piuttosto che di una prospettiva ritenuta realizzabile oggi. Ma in realtà, il contenuto politico della piattaforma dei Verdi e della SPD non è che uno specchietto per le allodole mediatico per rassicurare la borghesia! Il riassunto perfetto di quello che sono diventati. Nessuno di questi due partiti auspica il superamento del capitalismo e nemmeno dei fondamenti del liberismo! La loro stessa matrice li mette nelle mani della signora Merkel. Il punto non è, quindi, che la SPD non sia “capace di unire la sinistra tedesca”: è che non può far altro che dividerla. O non essere nemmeno ascoltata. L’affluenza alle urne dei più poveri, in Germania, è stata ben inferiore alla media. E questo fa parte del progetto neoliberale, che i social-liberisti aggravano con le loro scelte..Quindi non si può dissociare la forza della destra in Germania da quello che è diventato il partito socialdemocratico. Il risultato non è solo accolto dalla “delusione” di non so quale sinistra virtuale, a guardare i verdi e socialdemocratici. La questione di fondo è che il comportamento, le parole, il programma, la dottrina della SPD fanno indietreggiare le idee di sinistra in Germania. Cos’è la sinistra, quando è solo una variante compassionevole della destra? Cominciamo a sentirne gli effetti in Francia con il rigore “giusto” di Ayrault e Hollande, le loro smancerie con il MEDEF e cosi via. Non c’è da sorprendersi che François Hollande abbia fatto l’apologia di Gerhard Schröder durante la campagna elettorale tedesca. Come si può costruire una coscienza di sinistra in un ambiente del genere? La SPD divide e distrugge la sinistra mentre distrugge sé stessa. Pertanto, la nostra tesi è che la coscienza di sinistra deve essere ricostruita attraverso un’offerta politica pedagogica chiaramente alternativa. La stessa, per essere credibile, deve essere sostenuta da una funzione tribunizia chiaramente assunta, dura e cruda.
Immagino tutta la difficoltà della campagna di Die Linke. Basta vedere che anche se Die Linke sorpassa i liberali e resta davanti ai Verdi, è nascosta dalle rappresentazioni dei risultati nei media tedeschi la sera del voto. Nella campagna, la discriminazione mediatica è stata feroce: Die Linke ha ricevuto sette volte meno interviste che la SPD, che aveva preso solo il doppio dei suoi voti nelle precedenti elezioni del 2009. Ha avuto sei volte meno spazio dei Verdi e cinque volte meno dei liberali, che sono comunque di peso equivalente o inferiore alle urne. D’altro canto, ci si deve chiedere se la scelta di Die Linke di proporre otto candidati per il ruolo di cancelliere non sia una concessione a problemi interni incomprensibili agli elettori. Personalmente, ritengo che ciò renda meno credibile la proposta politica, perché i cittadini votano all’interno di una realtà istituzionale definita e per pesare su di essa. In tale realtà, di cancelliere ce n’è uno. Proporre otto candidati vuol dire non proporne nessuno! E dunque mostrare che non si crede la vittoria possibile. E rassegnarsi in partenza.
Il voto tedesco di questo week-end è una pessima notizia per i lavoratori in Europa. È anche una cattiva notizia per la Francia, d’ora in poi dominata da un vicino arrogante il cui egoismo nazionale è diventato la rendita elettorale dei suoi dirigenti. È una cattiva notizia per la sinistra, che è ancora una volta crocifissa all’impotenza per le responsabilità dei social-liberisti. Le persone soffriranno di più. Per niente. Questo è il motivo per cui il risultato tedesco mi incoraggia rispetto alla linea che abbiamo scelto: forte radicalismo, rifiuto di accordi politici, l’unione argomentata e cosciente della parte del nostro popolo che potrà poi trascinare la maggioranza nel programma della rivoluzione dei cittadini.

Bruxelles: crepi la Grecia, purché resti lontana dalla Russia

- libreidee -
Torturati da Bruxelles, i greci non hanno futuro: sono senza cibo e non hanno soldi per curarsi. Quello che sta accadendo alla Grecia nel 2013 non ha eguali in Europa dalla fine della Seconda Guerra Mondiale: la popolazione è abbandonata a se stessa, senza lavoro e senza protezioni, tantomeno sanitarie. E nelle manifestazioni di piazza cominciano a circolare armi. «Un’esplosione sociale è inevitabile», afferma l’ex diplomatico greco Leonidas Chrysanthopoulos. Ormai l’unica domanda è: quando la rivolta scoppierà. Perché tutto questo? Semplice: per il lucro degli speculatori di Wall Street, gli avvoltoi del debito greco, e per il dominio dell’egemonia euro-atlantica: se la Grecia dovesse collassare e uscire dall’Eurozona, spiega al “Corriere della Sera” l’ex ministro degli esteri tedesco Joschka Fischer, Europa e Usa potrebbero perdere il controllo sui Balcani: gli Stati oggi attratti da Bruxelles potrebbero spaventarsi e tornare sotto l’ala della Russia.
In gioco, le grandi risorse del sottosuolo e la posizione strategica della Grecia. Lo afferma il popolare compositore Mikis Theodorakis, oggi leader L'ex ministro tedesco Joschka Fischerdel movimento indipendente “Spitha”: la Grecia è ricca di risorse naturali, possiede una sviluppata industria navale e un enorme potenziale per far crescere la sua produzione agricola e industriale, oltre che il turismo. Per salvare la Grecia, Theodorakis punta su Mosca e Pechino: «Proponiamo di negoziare un prestito dalla Russia o dalla Cina ad un tasso di interesse inferiore». Interesse ulteriormente ridotto attraverso una joint venture con compagnie russe, come per l’oleodotto Burgas-Alexandroupolis, «in modo da sfruttare insieme le ricchezze del nostro paese». I beni del sottosuolo greco comprendono risorse estraibili di valore, petrolio e gas. Senza contare la valenza strategica dei porti ellenici. Obiettivo dell’alleanza con la Russia: permettere alla Grecia di «respirare liberamente», anziché continuare ad «abbassare la testa di fronte agli interessi e ai capricci dei ricchi paesi occidentali».
Tuttavia, rileva Anna Filimonova in un intervento su “Stratetic Culture”, ripreso da “Come Don Chisciotte”, queste proposte vengono sistematicamente ignorate, nonostante la disponibilità della Russia: già in passato la Gazprom aveva manifestato interesse comprando la parte di proprietà statale (65%) della Depa Corporation, che si occupa della distribuzione di gas in Grecia. «Ma l’affare è saltato, come indicato dai rappresentanti della Gazprom, a causa dell’assenza delle garanzie adeguate da parte del governo greco e della possibilità che Bruxelles avrebbe posto il veto sull’accordo». Da un lato, osserva la Filimonova, «l’Unione Europea minaccia Atene con duri provvedimenti se il piano di privatizzare gran parte del paese dovesse fallire». E dall’altro, «sta ostacolando gli accordi di privatizzazione con i partner “sbagliati”, primo su tutti la Russia, sabotando la possibilità di recupero per l’economia della Grecia». Motivo geopolitico: Mikis Theodorakisla paura che una rivolta anti-euro in Grecia possa “spaventare” l’area balcanica, congelando l’integrazione verso Bruxelles.
Per il tedesco Fischer, un risultato simile è altamente indesiderabile, in quanto aprirebbe la strada alla Russia al dominio sui Balcani. Così, l’Fmi rilancia e pone l’accento sul significato speciale della partecipazione della Grecia al progetto del Gasdotto Trans-Adriatico (Tap) per esportare gas naturale dall’Azerbaijan all’Europa attraverso la Grecia, l’Albania ed il Nord Italia. È inoltre previsto il rilancio del programma per la privatizzazione della compagnia del gas Depa per la metà del 2014, e i preparativi per la vendita sono stati fatti a gran velocità. Il 3 agosto 2013, la compagnia greca del gas e del petrolio Hellenic Petroleum ha approvato l’acquisizione da parte della compagnia petrolifera della Repubblica dell’Azerbaijan (Socar) della maggioranza delle azioni dell’operatore greco del sistema di trasporti del gas, la Defsa. E’ in atto la “grande rapina” annunciata dal trader di Wall Street Alessio Rastani poco prima della nomina di Lucas Papademos come primo ministro: «A noi non importa molto di come aggiusteranno l’economia, il nostro lavoro è guadagnarci. Personalmente sogno questo momento da tre anni, tutte le sere vado a letto e sogno un’altra recessione: quando il mercato crolla, se sai cosa fare, se hai il giusto piano da assemblare, puoi farci un sacco di soldi».
A quanto pare, conclude Anna Filimonova, il “piano giusto” è stato messo in moto: i tagli devastanti per ridurre al 124% del Pil il totale del debito greco hanno in realtà proiettato il debito al 156% del Pil nel 2012, debito che nel 2013 sarà di almeno il 175% ed entro il 2014 arriverà al 190% del Pil nazionale. Un disastro, come previsto. E l’offensiva su vasta scala contro la proprietà dello Stato continua: «Nel 2010 il governo di George Papandreou ha garantito ai creditori internazionali che sarebbe stato in grado di guadagnare almeno 50 miliardi di euro tramite la privatizzazione della proprietà statale della Grecia; tuttavia, secondo le successive stime degli esperti, entro il 2016 non verranno guadagnati più di 9,5 miliardi di dollari dalla privatizzazione. E questo, nonostante il fatto che è stato privatizzato praticamente tutto – il settore energetico, i trasporti, la costa». Persino il servizio fiscale è stato privatizzato, così come le università: oggi gli atenei sono proprietà privata per il 49%, in violazione della Costituzione ellenica. «Ma in Grecia ci sono tutti i modi per aggirare la legge: ad esempio, per Alessio Rastanipoter espandere la privatizzazione, sono state abolite 69 leggi che avrebbero complicato le cose». E nella sfera della privatizzazione, «c’è un regola per cui non è permesso restituire allo Stato un oggetto privatizzato».
Ed ecco, puntuale, la catastrofe. «In un rapporto dell’Onu pubblicato nel maggio 2013 – continua la Filimonova – è stato osservato che più del 10% del totale della popolazione del paese vive in condizioni di estrema povertà. La Grecia rimane il solo paese dell’Eurozona senza un complesso schema di assistenza sociale, i servizi sanitari sono quasi inaccessibili ai poveri e ai cittadini con redditi bassi e quasi un terzo della popolazione non ha un’assicurazione medica statale». Nonostante la liquidazione forzata dello stato sociale, la crisi che si è abbattuta sul paese non fa che peggiorare. E i pagamenti dei debiti ai creditori internazionali si fanno più difficili: «Quando nel marzo 2012 alcuni investitori privati furono costretti a cancellare più del 50% del debito greco, la Goldman Sachs, ad esempio, si è rifiutata di ristrutturare il debito della Grecia». Così, «i prestiti nazionali da 5 miliardi di dollari verranno ripagati alla banca per intero».
Di recente, la Grecia ha avuto “l’onore” di essere la prima in Europa per la riduzione delle spese di bilancio sui servizi sanitari. In particolare, le spese sui medicinali sono state ridotte da 5,6 miliardi di euro (2010) a 3,8 miliardi nel 2011 e 2,88 miliardi nel 2012. «Come diretta conseguenza, più di 50 compagnie farmaceutiche internazionali hanno sospeso l’invio di medicinali alla Grecia». Così, chi ha un parente all’ospedale deve «correre estenuanti maratone da una farmacia all’altra per cercare le medicine necessarie». Poi mancano attrezzature ospedaliere, e scarseggiano i sanitari: «Gli ospedali statali contano solo circa 6.500 dottori e 20.000 infermiere e inservienti; massicce quantità di medici professionisti stanno lasciando il paese». Ormai, curarsi costa una follia: «Persino chi ha un lavoro ha difficoltà a pagare per i servizi medici, i cui prezzi sono bruscamente aumentati». Sicché, si rinuncia alla salute, «specialmente nelle regioni rurali e sulle isole».
Impietosi anche i numeri dell’economia, grazie alla “cura” dell’austerity: nel periodo 2008-2012 il volume dell’economia greca è diminuito di almeno il 25%, «peggio delle cifre della Grande Depressione americana del 1929». Quest’anno il governo greco si aspetta un’ulteriore diminuzione del Pil del 4,5%. E naturalmente, le misure di austerità non hanno intaccato banchieri o armatori: la Grecia è il terzo paradiso fiscale degli armatori nel mondo, ricorda Anna Filimonova. L’impatto delle “riforme strutturali” – aumento dei prezzi, delle tasse e della disoccupazione – ha colpito i segmenti più poveri della popolazione. Numeri: nell’aprile 2013, il tasso di Grecia, scontri con la poliziadisoccupazione ha raggiunto il 27,2%. «Dietro questa cifra giace il destino di 4,56 milioni di persone. In 450.000 famiglie greche non c’è una sola persona occupata. Dei 2,6 milioni di persone che lavorano nel settore pubblico, 900.000 sono state licenziate nel solo 2009».
Buio pesto sul futuro, a cominciare da quello dei ragazzi: «Tra i giovani dai 15 ai 24 anni, il tasso di disoccupazione è del 60%, anche se secondo gli specialisti questa cifra non riflette il vero stato delle cose. I sussidi di disoccupazione sono stati tagliati e ora li ricevono solo 225.000 disoccupati». E non è finita: l’Eurotroika comporterà il licenziamento di altre 150.000 lavoratori del settore pubblico entro il 2015. La Grecia in ebollizione: ha pazientato per anni, ai limiti della sopravvivenza, ma ora questo limite potrebbe essere oltrepassato, così come quello della pazienza. Dal 2009, le piazze elleniche sono state agitate da 8.000 scioperi in Grecia, compresi gli scioperi generali. «Oggi la situazione nel paese è tale da trovarsi sull’orlo degli scontri armati: i casi in cui i manifestanti fanno uso di armi vengono osservati sempre più spesso».

venerdì 27 settembre 2013

Alta finanza: in attesa della terza crisi


 
Per l'alta finanza internazionale nulla è cambiato. Wall Street ha distribuito alle società finanziarie e del credito la somma più alta di tutti i tempi [G. Colonna]

 


- fonte -


Mentre il sistema bancario italiano assiste ad una crescita del 22% delle cosiddette "sofferenze"(i debiti che i clienti non riescono a ripagare), arrivando al record di 128 miliardi di euro e ad una previsione di 19mila posti di lavoro in meno nel settore - per l'alta finanza internazionale nulla sembra cambiato.
Secondo la Banca dei Regolamenti Internazionali(in inglese: Bank for International Settlements, BIS), un istituto internazionale con sede a Basilea, la quota di crediti ad alto rischio concessi dalle banche di tutto il mondo rappresenterebbe oggi ben il 45% del totale, con una crescita di trenta punti percentuale rispetto al minimo registrato durante la crisi e di ben dieci punti rispetto a prima dello scoppio della crisi stessa: una crisi che, nei soli Stati Uniti, ha cancellato otto milioni di posti di lavoro e miliardi di dollari di risparmi.

Mentre i cittadinidell'intero occidente sono alle prese con i duri sacrifici imposti dall'«austerità», con la crescita della disoccupazione e con una crescente pressione fiscale, l'alta finanza internazionale ha continuato a produrre enormi dividendi, stabilendo un record dopo l'altro: basta citare il caso di Wall Street, che nel 2011 ha distribuito alle società finanziarie e del credito la somma più alta di tutti i tempi, 60 miliardi di dollari di utili.

Secondo Snl Financial, una società di analisi americana, il reddito medio dei banchieri è aumentato del 22 per cento, ed anche in questo caso sono stati raggiunti record personali non da poco: John Stumpf, per esempio, amministratore delegato di Wells Fargo, è in cima alla classifica con 23 milioni di dollari di guadagno, un bel progresso rispetto ai 12 milioni di dollari che aveva incassato nel 2007, l'ultimo anno del boom.

Come nulla fosse accaduto, senza che nessun gruppo dirigente occidentale sembri preoccuparsene, sono tornati a crescere anche i complessi strumenti finanziari che sono stati il principale strumento della speculazione sui subprime (i mutui concessi a persone non in grado di ripagarli): solo nella prima metà del 2013, infatti, a livello mondiale sono stati venduti dalle grandi banche e società finanziarie internazionali 424 miliardi di dollari in asset backed security (Abs), uno degli strumenti il cui ruolo nella "democratizzazione del debito" è ben nota a chi ha analizzato i meccanismi che hanno innescato la crisi finanziaria.

Tutto ciò avviene nonostante in questi anni si siano moltiplicate le prove, anche in sede legale, della condotta spregiudicata, per non dire truffaldina, delle grandi società finanziarie: ci limitiamo a ricordare il caso più recente, i 920 milioni di multa che JPMorgan, una delle prime cinque aziende mondiali del settore finanziario, ha accettato di pagare per chiudere, con ammissione di colpa, la vicenda delle speculazioni sui derivati con le quali due trader della sua filiale di Londra avevano coperto le perdite della società sulle operazioni in derivati.
Il fatto che una grande società come JPMorganaccetti senza colpo ferire una simile condanna, riconoscendo responsabilità ed errori, fa chiaramente comprendere che la questione non è, come ha affermato Jamie Dimon, amministratore delegato diJPMorgan, di voler essere considerata "la banca migliore" dai regolatori oltreché da clienti e azionisti: non ha importanza sborsare cifre così ingenti, in un momento in cui i profitti lievitano senza difficoltà, non ha importanza che qualche funzionario o qualche dirigente venga allontanato, quel che conta è evitare che venga messo in discussione il sistemache continua a garantire profitti tanto elevati alla speculazione finanziaria.
Le grandi multe salvano Wall Street e la City londinese dal rischio di una "rivoluzione" nel rapporto fra politica ed economica che costringerebbe questi operatori a cambiare metodi e strumenti di lavoro. I miliardi di dollari con cui le banche sono state soccorse da tutti i governi occidentali, seguendo il principio del "troppo grandi per fallire", hanno permesso all'alta finanza internazionale di procedere indisturbata nelle proprie strategie di creazione e distribuzione del debito, strangolando l'economia reale attraverso le politiche restrittive degli Stati e favorendo l'accumularsi della ricchezza di chi possiede capitali e liquidità.
Questo è stato possibile grazie all'intreccio sempre più inestricabile fra potere dei partiti e potere della finanza, bene descritto recentemente dall'economista americano James Kwak, che scrive:
«La deregolamentazione della finanza ha conquistato consensi a Washington perché gli interessi delle grandi aziende dominavano il Partito repubblicano, mentre i democratici non volevano turbare Wall Street per non precludersi ricchi finanziamenti. I banchieri e gli immobiliaristi volevano vendere case a tutti i costi. I lobbisti avevano ormai agganci potenti nel governo. E tutti erano contenti della crescita».
Sono queste le forze che continuano a dominare l'economia e la politica occidentale, nonostante abbiano dato tremenda prova di sé, travolgendo nella speculazione miliardi di ricchezza costruita onestamente con il lavoro e le capacità di impresa. Qualche settimana fa, per fare un esempio, Rick Rieder, un alto dirigente della maggiore società di gestione finanziaria al mondo, Blackrock, di cui ci siamo spesso occupati, dava questa lezione a La Repubblica:
«Guardate cosa è successo qui in America: fino a quando non si è cominciato a rifinanziare direttamente le banche, con iniezioni di capitale dirette, aumenti di capitale sottoscritti dallo Stato, prestiti straordinari (che peraltro sono stati già restituiti con tutti gli interessi), fino ad allora non si riusciva ad impostare una ripresa strutturale. Per fortuna, mentre la Federal Reserve garantiva il quantitative easing [la "produzione" di dollari forniti al sistema bancario a condizione politiche, Ndt] e i bassi tassi di interesse, il Tesoro con un'insperata forma di coordinamento avviava tutte le misure che dicevo. Il risultato è stato il consolidamento del settore bancario che non ha fatto mancare le risorse al settore industriale. Finito il credit crunch, la stretta creditizia, è finita la crisi».
Ora che l'Italia ha «un governo ragionevole», prosegue il dirigente, Blackrock è tornata ad investire in titoli di Stato italiani.
Questa dunque la ricetta che i grandi finanzieri USA hanno imposto a livello mondiale, finanziare le banche con il denaro dei cittadini, affinché le stesse continuino a sviluppare le proprie speculazioni, giacché, come ben sappiamo, anche delle enormi somme che la BCE ha pompato nel sistema bancario europeo ben poco è arrivato alle piccole e medie imprese, alle famiglie, al terzo settore - vale a dire all'economia reale che permetterebbe di vivere onestamente a milioni di cittadini europei.


giovedì 26 settembre 2013

Intervista a Lucarelli: "Privato non vuol dire efficiente"

Fonte: controlacrisi.org | Autore: Fabio Sebastiani
                  
Intervista a Stefano Lucarelli, ricercatore all'Università di Bergamo e insegna Economia monetaria internazionale
Stefano Lucarelli, ricercatore all'Università di Bergamo e insegna Economia monetaria internazionale, mentre sta per ripartire una nuova stagione di privatizzazione ci troviamo di fronte al crollo di Telecom, che può essere considerata un po’ uno degli esempi italiani della via italiana alle dismissioni di aziende pubbliche.
In una situazione in cui ci si trova ad essere debitori con un debito che continua a crescere laddove le entrate non sono sufficienti si passa alla vendita del patrimonio. E lo si fa su servizi che sono potenzialmente redditizi. Un’impresa impegnata nel settore delle telecomunicazioni può essere molto attraente soprattutto se viene acquistata ad un valore inferiore alle sue capacità di creare reddito.
Sì, ma un bilancio sulle privatizzazioni si può tentare?
Certo. Guardando ad esperienze come quelle della Gran Bretagna non c’è da stare allegri. Smentito chi dice che la privatizzazione è inevitabile nel momento in cui bisogna raggiungere risultati di efficienza. Hanno sempre sostenuto che con il mercato in gioco il manager sarà più incentivato sulla riduzione dei costi. E questo insieme a una regolamentazione adeguata anche se siamo quasi sempre una situazione di monopolio naturale, dovrebbe spingere in basso il livello dei prezzi.
E invece cosa è accaduto?
Per quanto riguarda il servizio idrico integrato i dati dimostrano che l’efficienza è una variabile complessa che non si può studiare solo in riferimento ai prezzi ma alla struttura produttiva complessiva. Un acquedotto è efficiente se non perde acqua per esempio o usa tecnologie più avanzate. Con questo criterio salta la correlazione tra efficienza e assetto proprietario perché anche le aziende pubbliche sono efficienti e anche tra le private trovi le inefficienti.
E la Gran Bretagna?
Nel suo saggio “Th Great Divesture”, Massimo Florio dimostra che se andiamo a calcolarci in tutto e per tutto gli effetti della telefonia privatizzata in Inghilterra prendendo non solo i prezzi ma i salari degli addetti, e i rendimenti degli azionisti ci accorgiamo che il bilancio non è certo rose e fiori. Innanzitutto nella prima fase il governo ci ha rimesso 14 miliardi di sterline, svendendo il proprio patrimonio. E non ci furono nemmeno i guadagni di borsa ventilati, quanto meno non per tutti, perché ad intascare furono i ricchi che diventarono ancora più ricchi. I salariati no di certo. Non c’è una correlazione, quantomeno non è significativa in senso statistico - nemmeno tra tasso di crescita dell’economia britannica e le privatizzazioni. Anzi, le privatizzazioni sono state legate a effetti redistributivi e i risultati in termini di contenimento delle tariffe del servizio non è stato significativo.
C’è poi un discorso in relazione alla crescita del Paese. In Italia alienare aziende strategiche non farà bene. Poi ci lamentiamo se lo spread aumenta…
Sì è vero lo spread dipende di più dai tassi di crescita che dai risultati di finanza pubblica. Basta leggere i rapporti del Fmi. E basta guardare al dibattito ai piani alti. Ciò che interessa non è tanto l’ammontare di debito pubblico sul prodotto interno lordo. Questa cosa è diventata importante perché nel dibattito sulla stabilità politica Ue è diventato centrale in modo pretestuoso. Ma il vero problema sono i tassi di crescita. E i tassi di crescita aumentano se il sistema economico nazionale investe nei settori strategicicamente importanti, come le Tlc, appunto. C’è un tasso di interesse alto sui titoli del debito pubblico perché c’è sfiducia nella competitività del paese, ma anche a causa di una politica monetaria europea che non disincentiva la speculazione finanziaria sui titoli di Stato.
Siamo in una congiuntura in cui il confronto sulla crescita non si può più eludere…
Le politiche industriali sono importantissime. E’ vero che la quota dell’high tech sugli scambi commerciali è crescente e dominante, ma questo segnala un cambiamento da un paradigma produttivo ad un altro in cui il settore manifatturiero continua a contare; non possiamo distruggerlo, dobbiamo trasformarlo. High tech e biotecnologie sono manifatturiero e non terziario. Tra i settori trainanti ci sono anche le telecomunicazioni e molti servizi di pubblica utilità come energia e acqua sono strategici. Ma una politica industriale in Italia non sembra esserci. I distretti tecnologici dopo il 2010 sono entrati in difficoltà proprio per l’assenza di politiche pubbliche adeguate. Nella divisione internazionale del lavoro il ruolo italiano è quello di un paese subfornitore di secondo livello. La classe politica italiana non può essere contenta di questa situazione, quella tedesca e francese certamente sì proprio perché in questo modo le proprie aziende si sono ricollocate a monte della filiera produttiva ed hanno difeso e addirittura ampliato le proprie quote di mercato.
Non si vede lo sbocco però…
Questa situazione ci sta conducendo a un punto di minimo. Il problema è che se ne esce solo con la politica. Il profilo di politica economica del governo è estremamente confuso. Si ritiene che si può giocare un ruolo con gli incentivi ai giovani attraverso i fondi europei che sono pochi e non prendono il toro per le corna. Una impresa può sfruttare questa opportunità ma se quell’impresa non ha commesse deve ridefinire al rìbasso comunque la struttura produttiva, despecializzandosi. E’ chiaro che tutto questo si accompagna ad una occupazione che viene umiliata, per usare le parole di un sociologo, Federico Chicchi. Le competenze alte di chi cerca lavoro non corrispondono alle richieste dei datori di lavoro italiani.

"Merkel porta l'Ue alla rovina. Gli altri Paesi devono reagire". Intervista a Giacché

Fonte: www.liberazione.it | Autore: fabio sebastiani
                
l risultato delle elezioni in Germania e l’interpretazione che ne danno i maggiori partiti ci dicono che un cambio di passo è al di là da venire, con conseguenze pesanti per l’Europa. Su questo chiediamo un punto di vista a Vladimiro Giacché che sta per uscire con un importante libro sull’argomento (Anschluss, L’annessione. L’unificazione della Germania e il futuro dell’Europa, Imprimatur edizioni).
Il voto è la conseguenza di un fatto politico molto importante, ossia la sostanziale convergenza di posizioni, tra la destra dal volto materno e la Spd, il partito socialdemocratico. E’ una cosa che è emersa chiara in campagna elettorale, cioè l’assoluta mancanza di un'alternativa alla politica del governo. Un giornalista di Ft che aveva seguito il dibattito tra Merkel e Steinbruck ha parlato di un garbato colloquio tra due economisti di tendenza neoliberista. Una parte sostanziosa dell’estabilishment tedesco ha sostanzialmente appoggiato le politiche del governo. Il risultato è questo: l’elettorato alla copia preferisce l’originale. La Merkel ha guadagnato molti più voti di Spd ed ha distrutto il partito liberaldemocratico. In questo caso la logica dell’originale ha funzionato in tutte e due le direzioni. I liberaldemocratici hanno provato con una posizione euroscettica ma una parte dei voti sono andati da un’altra parte.
Come valuti il risultato della Linke?
Intanto, non dobbiamo dimenticarci che in linea teorica il risultato delle urne ci ha consegnato un parlamento con una maggioranza di sinistra. Ma la Spd ha detto da subito che con la Linke non vuole fare accordi e quindi si continua con l’esclusione della sinistra. La posizione di vera sinistra ha comportato per la Linke un buon risultato. Qualche punto in meno? Ma all’epoca era più facile profilare una posizione autonoma, oggi la Spd, invece, era all’opposizione. La Linke, che è vittima di una conventio ad escludendum anche nei mezzi di informazione, è l’unica forza politica tedesca che ha le idee chiare su quello che andrebbe fatto in Germania ed in Europa e dice che quello che sta accadendo in Europa è il risultato della politica di deflazione, precarizzazione e bassi salari che la Germania vuole esportare anche negli altri paesi dell’Europa. In parole povere siamo all’agenda 2010 di Schroeder. Questa posizione della Linke è essenziale perché lega i vari movimenti dei lavoratori europei. E’ un punto importante da cui ripartire. Noi dovremmo uscire un po’ dall’idea di una contrapposizione tra paesi. E loro lo dicono chiaramente. E’ evidente che questo punto di vista si oppone alle politiche praticate in Germania e negli altri paesi.
La Grosse Koalition assomiglia un pò - come nel caso italiano - al "governo del presidente"...
A questa grossa coalizione si arriverà con una Spd che è più o meno la metà del partito della Merkel con le idee poco chiare sulle cose da fare. Credo che uno degli aspetti più importanti sia la fine della speranza in un blocco alternativo alle politiche di austerity guidato dai partiti socialdemocratici. Hollande prima ha gridato contro il fiscal compact e poi si è adeguato seguendo come uno scolaretto.
Non ci saranno nemmeno gli eurobond?
Su questo capitolo va detta una cosa chiara. La situazione si è aggravata. L’idea che l’Europa si salva con la comunitarizzazione del debito è sbagliata. In realtà i temi all’ordine del giorno sono la deindustrializzazione, la disoccupazione di massa, forte deficit in Italia della bilancia commerciale soprattutto nei confronti della Germania. Del resto abbiamo un esempio in Europa di un paese con tutti questi tre feneomeni che poi si è trovato in una forte dipendenza dall’estero. Questo paese è la Germania Est. Le dinamiche europee che sono state accentuate dalla moneta unica sono dinamiche che tu non inverti con l’obolo per i debiti. In un’altra forma queste coperture c’erano pure prima. Quello che serve è un riorientamento della politica europea. E questo ha conseguenze molto gravi. Dobbiamo porci in una situazione in cui non dobbiamo avere bisogno dei soldi della Germania. Loro devono fare politiche espansive e smetterla con una concorrenza sleale con bassi salari e aiuti alle imprese.
Non c’è solo questo contenzioso tra Europa e Germania. C’è anche la partita sul controllo delle banche. E quello interessa le istituzioni europee in quanto tali.
I loro interessi li hanno difesi bene nella cornice attuale rendendo complicata una evoluzione istituzionale in Europa, come per esempio sull’unione bancaria, che è stata bombardata dalla Germania. La supervisione non è su tutte le banche ma solo per quelle sopra i 30 miliardi di euro. Quelle che hanno problemi sono soprattutto le piccole. Qui non ci sarà alcuna vigilanza. Anche su quelle grandi la Merkel ha ottenuto di ritardare il processo. Tutto ciò non va nella direzione dell’integrazione. E’ oggettivamente una contraddizione perché sono gli stessi tedeschi che da una parte invocano più Europa e poi però la bombardano.
Messe così le cose non si vedono alternative se non in una presa di coscienza degli altri paesi europei…
La Francia è realmente a un bivio. O fanno come i tedeschi oppure devono guidare la rivolta contro la Germania.L’equilibrio attuale dovrebbe essere fatto saltare a beneficio dell’Europa stessa, sia chiaro. La mia impressione è che le dinamiche distruttive che riguardano in particolare l’euro non si sono minimamente arrestate. L’abbassamento dello spread riguarda solo la gran massa di liquidità immessa da Stati uniti e Giappone con capitali in libera uscita che si buttano pure sui titoli di Stato italiani. Insomma, se consideriamo l’adeguatezza dei tassi di interesse dei vari paesi l’euro non c’è già più. Se si continua su questa rotta l’euro è spacciato. O si riducono gli squilibri oppure l’euro diventa una camicia di forza che poi uno alla fine decide di togliersi.

Merkel: “Non cambierà nulla”. Syriza: “Coordiniamo resistenze di tutti i paesi europei”

 
Merkel: “Non cambierà nulla”. Syriza: “Coordiniamo resistenze di tutti i paesi europei”

di ARGIRIS PANAGOPOULOS – il manifesto -

Le dichiarazioni di Angela Merkel, domenica sera dopo la vittoria elettorale, («non dovremo smettere di esercitare pressioni per l’applicazione delle riforme in Grecia») sono suonate, per la maggioranza dei greci, come una nuova dichiarazione di guerra, mentre l’affermazione che si prepara un terzo Memorandum ha cancellato qualsiasi dubbio sulla durata dell’austerità. In verità i greci hanno dimostrato poco interesse per le elezioni tedesche: l’attenzione è tutta rivolta alle proteste contro l’assassinio di Paulos Fissas da parte degli squadristi di Alba Dorata, alle teste tagliate negli alti gradi della polizia greca e all’ondata dei scioperi nel settore pubblico e privato, che hanno dimostrato la voglia di lottare ma anche una grande stanchezza.
Ieri pochi giornali aprivano con le elezioni in Germania. Il giornale filogovernativo Ta Nea titolava “Trionfo per la regina dell’austerità” e l’economico Nauftermporiki intitolava “Che porta per l’Europa il trionfo di Merkel?” Il resto dei quotidiani preferiva aprire con le notizie che riguardavano la piccola insurrezione contro i neonazisti.
Anche i politici greci, specialmente quelli al governo, non si sono sperticati in dichiarazioni. Perfino la telefonata di Samaras a Merkel è passata in meno di due righe nell’agenzia ufficiale: «Il primo ministro si è congratulato con la cancelliera tedesca per il successo elettorale».
Nuova Democrazia e Pasok vivono con la speranza che la grande coalizione con la Spd possa modificare la linea dura della Merkel. Ancora peggio, alcuni esponenti di spicco di Nuova Democrazia insistono sul fatto che Merkel è una dei pochi politici che sostengono con forza il loro progetto. Per parte sua Giannis Dragasakis, l’anima pensante di Syriza e per tutto ciò che riguarda la politica economica del partito, ha sottolineato che «la chiave è lo sviluppo e il coordinamento delle resistenze contro le politiche neoliberali di austerità in ogni paese e in Europa».
«La signora Merkel ha detto che non dobbiamo allentare le riforme e che non dobbiamo aspettarci nessuna svolta politica. A rischio di sottovalutare la complessità della situazione, credo che il problema della possibilità di una coalizione lo avranno i socialdemocratici, perché saranno risucchiati dalla signora Merkel. Non dobbiamo dimenticare come avevano votato i socialdemocratici sulle misure di austerità e i Memorandum». «Non è un caso che il grande pensatore tedesco Ulrich Beck parla di “una regina senza corona nell’Unione Europea”», ha detto Rena Doutou, responsabile per la politica estera di Syriza.
La deputata indipendente dei comunisti del Kke Liana Kaneli ha messo in guardia sul fatto che «qualcuno probabilmente ha stappato lo champagne. Chi credeva che se perdeva Merkel sarebbe cambiato qualcosa sbaglia, perché le elezioni in Germania non influenzano la Grecia, se non per quanto riguarda l’economia».
Da parte sua la Frankfurter Allgemeine Zeitung sottolineava ieri che i greci, se potessero, voterebbero tutti per i socialdemocratici, mentre la Süddeutsche Zeitung è convinta che «negli occhi di tanti greci nessun’altra persona incarna la miseria del loro paese cosi tanto come Merkel», ricordando come recentemente la cancelliera era stata mostrata con una divisa nazista.

mercoledì 25 settembre 2013

The economists' warning

 


Nello stesso giorno in cui i media celebrano la vittoria di Angela Merkel in Germania [ndr: 23 settembre 2013], il Financial Times pubblica un testo che interpreta molto diversamente la fase e che guarda più avanti: è "Il monito degli economisti" ("The Economists' Warning"), un documento promosso dagli italiani Emiliano Brancaccio e Riccardo Realfonzo (Università del Sannio) e sottoscritto da alcuni tra i principali esponenti della comunità accademica internazionale, appartenenti a varie scuole di pensiero, tra di essi:
Philip Arestis (University of Cambridge), Wendy Carlin (University College of London), James Galbraith (University of Texas), Mauro Gallegati (Università Politecnica delle Marche), Eckhard Hein (Berlin School of Economics and Law), Alan Kirman (University of Aix-Marseille III), Jan Kregel (ex capo dell'ufficio Finanziamenti per lo sviluppo dell'ONU), Dimitri Papadimitriou (presidente del Levy Economics Institute), Pascal Petit (Université de Paris Nord), Dani Rodrik (Institute for Advanced Study, Princeton), Willi Semmler (New School University, New York), Tony Thirlwall (University of Kent) ed altri.
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La crisi europea continua a distruggere posti di lavoro. Entro la fine del 2013 ci saranno 19 milioni di disoccupati nella sola zona euro, oltre 7 milioni in più rispetto al 2008, un aumento senza precedenti dalla fine della seconda guerra mondiale, che si estenderà per tutto il 2014.
La crisi occupazionale colpisce soprattutto i paesi membri periferici dell'Unione monetaria europea, dove si sta verificando un'eccezionale crescita dei fallimenti, mentre la Germania e gli altri paesi centrali della zona euro hanno invece registrato una crescita sul fronte lavoro.
Questa asimmetria è una delle cause della attuale paralisi politica dell'Europa e della successione imbarazzante di incontri al vertice che si traducono in misure palesemente incapaci di arrestare i processi di divaricazione in atto. Se questa lentezza nel trovare una risposta politica può giustificarsi in fasi meno gravi del ciclo e momenti di tregua sul mercato finanziario, potrebbe avere invece conseguenze più gravi nel lungo periodo.
Come previsto da parte della comunità accademica, la crisi sta rivelando una serie di contraddizioni nelle istituzioni e nelle politiche dell'Unione Monetaria Europea. Le autorità europee hanno preso una serie di decisioni che, contrariamente a quanto annunciato, hanno in realtà contribuito a peggiorare la recessione e ad ampliare il divario tra i paesi membri.
Nel giugno 2010, quando i primi segni della crisi della zona euro sono diventati evidenti, una lettera firmata da trecento economisti ha sottolineato i pericoli inerenti le politiche di austerità, che deprimono ulteriormente la domanda di beni e servizi, nonché l'occupazione e il reddito, rendendo così il pagamento dei debiti, sia pubblici che privati, ancora più difficile.
Questo allarme è stato tuttavia inascoltato. Le autorità europee hanno preferito adottare la fantasiosa dottrina di "austerità espansiva", secondo cui i tagli di bilancio potrebbero ripristinare la fiducia dei mercati nella solvibilità dei paesi dell'Unione europea e quindi portare ad un calo dei tassi di interesse e la ripresa economica. Come il Fondo monetario internazionale ha riconosciuto, oggi sappiamo che le politiche di austerità hanno effettivamente approfondito la crisi, provocando un crollo dei redditi contrariamente alle aspettative largamente diffuse. Anche i campioni della "austerità espansiva" ora riconoscono i loro errori, ma il danno è ormai in gran parte fatto.
Le autorità europee si accingono ora a compiere un nuovo errore. Sembrano convinte che i paesi membri periferici possano risolvere i loro problemi mediante l'attuazione di "riforme strutturali", in grado di ridurre i costi e i prezzi, incentivare la competitività e quindi favorire la ripresa, trainata dalle esportazioni e dalla riduzione del debito estero. Anche se questo punto di vista mette in evidenza alcuni problemi reali, la convinzione che questa soluzione possa al contempo salvaguardare l'unità europea è un'illusione.
Le politiche deflazionistiche applicate in Germania e altrove per costruire surplus commerciali hanno lavorato per anni, insieme con altri fattori, per creare enormi squilibri tra debito e credito tra i paesi della zona euro. La correzione di questi squilibri richiederebbe un'azione concertata da parte di tutti i paesi membri. Ipotizzare che i paesi periferici dell'Unione possano risolvere il problema senza aiuto significa chiedere loro di sottoporsi a un calo dei salari e dei prezzi su tale scala da causare un crollo ancora più accentuato dei redditi e una violenta deflazione del debito, con il rischio concreto di provocare nuove crisi bancarie e di produzione capaci di paralizzare intere regioni d'Europa.
John Maynard Keynes si oppose al Trattato di Versailles nel 1919 con queste parole lungimiranti:
«Se accettiamo la prospettiva che la Germania debba mantenersi impoverita ei suoi figli morti di fame e storpi [...]. Se puntiamo deliberatamente all'impoverimento dell'Europa centrale, la vendetta, oso predire, non sarà zoppicare».
Anche se le posizioni sono ora invertite, con i paesi periferici in difficoltà e la Germania in una posizione relativamente avvantaggiata, la crisi attuale presenta più di una somiglianza con quanto avvenne in quella terribile fase storica, che ha creato le condizioni per l'ascesa del nazismo e la seconda guerra mondiale. La memoria di quei terribili anni sembra essersi tuttavia persa, da come la Germania e gli altri governi europei stanno ripetendo gli stessi errori che sono stati fatti allora.
Questa miopia è in definitiva la causa principale delle ondate di irrazionalismo che attualmente imperversano in Europa, dagli ingenui paladini dei tassi di cambio flessibili come una cura per tutti i mali fino ai casi più inquietanti della propaganda ultra-nazionalista e xenofoba.
È essenziale capire che se le autorità europee continueranno con le politiche di austerità affidandosi soltanto a riforme strutturali per ristabilire l'equilibrio, il destino dell'euro è già segnato. L'esperienza della moneta unica si avvierà alla sua conclusione, con ripercussioni sulla sopravvivenza stessa del mercato unico europeo.
In assenza di condizioni per una riforma del sistema finanziario e di una politica monetaria e fiscale che consenta di sviluppare un piano per rilanciare gli investimenti pubblici e privati, di contrastare le disuguaglianze di reddito e tra le aree e di aumentare l'occupazione nei paesi periferici della Unione, la decisione politica che rimarrà da prendere sarà niente altro che una scelta cruciale tra modi alternativi di uscire dall'euro.
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Traduzione per Megachip di Pier Francesco De Iulio.
Il testo in inglese e tutte le informazioni sul progetto:http://www.theeconomistswarning.com/Il blog del Prof. Emiliano Brancaccio:
http://www.emilianobrancaccio.it/

Intervista a Flassbeck: “L’uscita dall’euro non sia più un tabù”

    
Intervista a Flassbeck: “L’uscita dall’euro non sia più un tabù”

di Alberto Fierro – il manifesto -

Direttore generale del ministero delle finanze nel biennio 1998-99 quando a guidarlo era Oskar Lafontaine, poi alto funzionario dell’Unctad (Conferenza Onu sul commercio e lo sviluppo), il 63enne Heiner Flassbeck è uno degli economisti tedeschi più autorevoli. Autore di numerose pubblicazioni, oggi insegna all’Università di Amburgo e dirige un sito web di analisi e commenti sulla politica economica (www.flassbeck-economics.de) che offre una voce in controtendenza rispetto al mainstrem neoliberale.
Professor Flassbeck, in un suo recente studio – che ha suscitato un vasto dibattito – lei sostiene che il superamento della moneta unica così com’è ora non possa più essere considerato un tabù: la fine dell’euro potrebbe rappresentare un miglioramento delle condizioni del Sud Europa. Perché?
Secondo le mie analisi, il problema della zona euro è principalmente il gap di competitività tra Germania e paesi dell’Europa meridionale. Questa situazione è la conseguenza diretta delle politiche tedesche di dumping salariale praticate nei primi dieci anni di vita dell’euro, che, di fatto, sono andate contro le regole e lo spirito dell’unione monetaria. Il fatto è che il costo unitario del lavoro (cioè il salario in rapporto alla produttività) è aumentato in Germania in misura molto inferiore rispetto agli altri paesi europei, influenzando in maniera decisiva l’inflazione e conseguentemente la competitività delle esportazioni: minore inflazione e costo del lavoro significano prezzi più bassi della concorrenza estera. La catastrofe è l’attuazione di queste politiche di moderazione salariale in paesi come la Spagna e la Grecia: l’unico risultato ottenuto è la distruzione della domanda interna. Se tali misure venissero adottate anche in Italia e Francia si avrebbe il collasso dell’Europa. Per queste ragioni abbandonare l’euro potrebbe rappresentare forse l’unica possibilità per i Paesi oggi costretti a diminuire i salari di avere un’alternativa a tali misure. E per salvare l’Unione europea come progetto politico.
Come immagina potrebbe realmente concretizzarsi l’abbandono dell’euro?
Questi paesi potrebbero uscire dalla moneta unica, introdurre una nuova divisa, svalutare in maniera intelligente e quindi sopravvivere economicamente. Potrebbero esserci due euro, uno «forte» e uno «debole». Sono tutti scenari su cui è possibile ragionare. Ci tengo a sottolineare che io sono sempre stato un sostenitore dell’introduzione dell’euro: il problema è nato con la sua gestione. Se la politica non è in grado di governare il sistema della moneta unica, allora è meglio che venga abbandonato.
Lei sostiene che la moderazione salariale sia la ragione fondamentale della forza tedesca rispetto al resto d’Europa in questi anni.
Come valuta l’idea di introdurre un salario minimo per legge contenuta in alcuni programmi elettorali (8,5 euro secondo Spd e Verdi, 10 per la Linke)? Quali sarebbero le ricadute europee di un aumento dei salari tedeschi?
L’unica soluzione alla crisi economica europea passa attraverso un forte aumento dei nostri salari che vada a compensare il gap di competitività. Le proposte sul salario minimo sono senza dubbio giuste e importanti, ma non bastano. Occorrono misure che riducano sostanzialmente la competitività tedesca nel medio periodo. Affinché i Paesi del sud Europa possano a loro volta migliorare la propria competitività, c’è bisogno di una fase di transizione in cui gli stati attualmente in crisi possano indebitarsi «in maniera sana»: ad esempio con i famosi eurobond. Anche la Germania trarrebbe alcuni benefici dall’aumento dei salari: crescita della domanda interna e aumento delle importazioni. Il problema del nostro sviluppo economico è stato negli ultimi anni proprio relativo alla domanda interna: si è avuta stagnazione dei consumi interni e degli investimenti. Insomma, dietro l’immagine di una Germania vincente grazie al boom di esportazioni esiste una realtà ben diversa.
Come valuta le proposte economiche dei tre partiti di sinistra (Spd, Grünen e Linke) che si presentano al voto?
Possiamo definirli tutti e tre «di sinistra»? Per quanto riguarda la Spd non credo sia possibile. Ufficialmente continua a sostenere che le politiche di riforme strutturali del governo di Gerhard Schröder – la cosiddetta Agenda 2010 – siano state giuste, e non ha messo al centro della propria campagna elettorale un vero dibattito sulla crisi in Europa. Steinbrück e compagni non sono in grado di proporre soluzioni per la situazione attuale: proprio a causa della mancanza di ricette alternative a quelle di Angela Merkel che socialdemocratici e Verdi non ne hanno parlato. A mio modo di vedere, l’unica forza politica che ha provato davvero a comprendere realmente la crisi e a cercare soluzioni è la Linke.

domenica 22 settembre 2013

La Commissione Europea vuole smantellare lo Stato sociale, ormai lo dice anche il premio Nobel Paul Krugman…

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In un articolo del 3 settembre sul New York Times, tradotto e pubblicato dal Sole24Ore il 13 settembre, il premio nobel per l’economia, Paul Krugman (della scuola Neo-Keynesiana) ha così definito i metodi adottati dalla Commissione Europea, riferendosi nello specifico al suo vice presidente e Commissario europeo agli affari economici e monetari, Olli Rehn:
[...] la verità è che Rehn ha gettato la maschera. Non è una questione di rigore nei conti pubblici, non lo è mai stata. Lo scopo è sempre stato usare lo spauracchio ingigantito dei pericoli del debito per smantellare lo Stato sociale.
26056380_il-nobel-paul-krugman-all-attacco-di-apple-gruber-in-difesa-9Fa sempre piacere vedere di essere in buona compagnia nel dire certe cose e avere la possibilità di poter sfidare un interlocutore avverso (tipo Boldrin per dire) a smentire non tanto noi (“ragazzi della MeMMT”) ma un premio Nobel per l’economia. La cosa che però volevo far notare è che ancora una volta non serve un premio nobel per capire che cosa ci stanno realmente imponendo le elité sovranazionali europee, dal momento che sono loro stesse a dircelo periodicamente (in maniera più o meno esplicita).
Per esempio, il 23 febbraio del 2012, il presidente della Banca Centrale Europea (BCE), Mario Draghi rilasciava un’intervista in cui annunciava molto tranquillamente che:
Il «pregiato modello sociale ed economico dell’europa», che garantisce la sicurezza del lavoro e gli ammortizzatori generosi, «è obsoleto».
Oppure, nel lontano agosto del 2003, l’ex ministro dell’Economia e delle Finanze nel governo Prodi (2006-2008), Tommaso Padoa Schioppa, uno dei principali alfieri italiani del processo di unione monetaria europea, descriveva così il suo ideale di futuro modello europeo sulle colonne del Corriere della sera:
Nell’Europa continentale, un programma completo di riforme strutturali deve oggi spaziare nei campi delle pensioni, della sanità, del mercato del lavoro, della scuola e in altri ancora. Ma dev’essere guidato da un unico principio: attenuare quel diaframma di protezioni che nel corso del Ventesimo secolo hanno progressivamente allontanato l’ individuo dal contatto diretto con la durezza del vivere, con i rovesci della fortuna, con la sanzione o il premio ai suoi difetti o qualità. Cento, cinquanta anni fa il lavoro era necessità; la buona salute, dono del Signore; la cura del vecchio, atto di pietà familiare; la promozione in ufficio, riconoscimento di un merito; il titolo di studio o l’ apprendistato di mestiere, costoso investimento. Il confronto dell’ uomo con le difficoltà della vita era sentito, come da antichissimo tempo, quale prova di abilità e di fortuna. È sempre più divenuto il campo della solidarietà dei concittadini verso l’ individuo bisognoso, e qui sta la grandezza del modello europeo. Ma è anche degenerato a campo dei diritti che un accidioso individuo, senza più meriti né doveri, rivendica dallo Stato.
E questi sono solo due degli esempi più lampanti e inequivocabili per capire con chi abbiamo a che fare. Insomma, ci stanno dicendo cosa vogliono fare delle nostre vite e del nostro futuro. Questa è la loro finalità.
Il mezzo utilizzato si chiama Euro: una moneta che gli Stati dell’Eurozona non possono più emettere ma che sono costretti a prendere in prestito dai mercati finanziari; i governi quindi non possono attuare politiche fiscali di spesa in maniera autonoma per creare benessere e piena garanzia dei diritti per i cittadini. E, ripeto: anche se domani mattina al posto del governo Letta arrivasse qualcuno che volesse intraprendere realmente politiche a favore della collettività, dei lavoratori, dei disoccupati, sarebbe materialmente impossibilitato a farlo stando dentro l’Eurozona. Oggi, qualsiasi decisione che conti davvero deve essere vagliata dai tecnocrati della Commissione Europea a Bruxelles (come ormai dicono apertamente anche fonti insospettabili).
E, di nuovo, che l’Euro sia uno strumento di governo non lo dico io, ma gli stessi architetti dell’Unione monetaria. Per esempio, nel 2011, l’ex Presidente del consiglio, Mario Monti notava che “what Greece has decided and has implemented is the best signal to date that the euro as a means of structural transformation is working”, ossia “ciò che la Grecia ha adottato e implementato è il miglior segnale che l’euro, come mezzo di trasformazione strutturale, sta funzionando” (fonte).
Ah, ovviamente spiegatelo ai Greci senza più lavoro che sono in piazza da due giorni, con a casa bambini denutriti come in tempo di guerra, che tutto sta funzionando.
Daniele Della Bona

EURO: UN TUMORE NEOLIBERISTA


Non confondiamo il sogno dell'Unione europea con l'incubo della moneta unica

di Mark Weisbrot*
Pubblichiamo quest'articolo malgrado sia "inglese", ovvero contenga la pittoresca idea che la politica monetaria del duetto anglosassone (UK e USA) sia "meno di destra" e meno "antipopolare" di quella della Bce e delle autorità politiche europee che l'avallano. Per l'autore sarebbero andati benissimo, nel tentare di uscire dalla recessione, i paesi che hanno adottato stimoli e incentivi fiscali per rilanciare i consumi, mentre la Bce ha scelto politiche restrittive. Tutto vero. Solo va aggiunto che di quegli stimoli si sono avvantaggiati solo i capitalisti e le banche, e che né UK né USA sono venute fuori dal marasma e che anzi, per certi versi stanno messe peggio dell'eurozona. Se la finanza predatoria non li aggredisce è solo perché... essa risiede nella City londinese e a Wall Street. La verità è che né a Francoforte, né a Londra, né a Washington hanno la più pallida idea di come evitare che la crisi diventi catastrofica, per la semplice ragione che quest'esito non si può evitare. La crisi è una crisi epocale, e il capitalismo occidentale è destinato a sprofondare. Se poi sarà in grado di risorgere, lo si vedrà fra trenta o quaranta anni.

L’euro sta precipitando verso i minimi storici nei confronti del franco svizzero e i tassi di interesse sui bond italiani e spagnoli hanno raggiunto tassi da record. Quest’ultimo sviluppo della crisi della zona euro è dovuto ai timori che il contagio stia per estendersi all’Italia, che con un’economia da 1.400 miliardi di euro e un debito di 1.700 miliardi è “troppo grande per fallire”, come si usa dire. Di conseguenza le autorità europee sono fortemente preoccupate.

Anche se al momento ci sono pochi presupposti che i tassi d’interesse italiani possano salire al punto da mettere davvero a repentaglio la solvibilità, i mercati finanziari stanno agendo irrazionalmente e incrementando sia i timori sia l’eventualità che la profezia si auto-avveri. Il fatto che le autorità europee non riescano neppure ad accordarsi su come gestire il debito greco – un’economia pari a meno di un sesto di quella italiana – non ispira molta fiducia nella loro capacità di gestire una crisi più grande. Le economie più deboli della zona euro – Grecia, Portogallo, Irlanda e Spagna – sono già di fronte alla prospettiva di anni di sacrifici economici, oltre ad altissimi livelli di disoccupazione (rispettivamente del 16, 12, 14 e 21 per cento).

Se teniamo conto del fatto che al fondo di questa condanna auto-inflitta c’è il proposito di salvare l’euro, è sicuramente opportuno chiedersi se valga davvero la pena salvarlo, e bisogna formulare questa domanda dall’ottica della stragrande maggioranza degli europei che si guadagnano da vivere, quindi da una prospettiva progressista.

Si afferma di frequente che l’unione monetaria – che ormai comprende 17 paesi – deve essere mantenuta per il bene dell’intero progetto europeo. Ciò implica ideali apprezzabili come la solidarietà europea, l’adozione di standard comuni sui diritti umani, l’integrazione sociale, la sorveglianza del nazionalismo di destra e naturalmente l’integrazione economica e politica che sta alla radice di questo progresso.

Ma ciò significa confondere l’unione monetaria, ovvero la zona euro, con l’Unione europea stessa. Danimarca, Svezia e Regno Unito, per esempio, appartengono all’Ue ma non all’unione monetaria. Non vi è dunque motivo per il quale il progetto europeo senza l’euro non possa andare avanti e portare comunque a un’Unione prospera.

Ci sono buone ragione per sperarlo. Il problema è che l’unione monetaria, diversamente dall’Ue, è un progetto della destra. Se ciò non è stato chiaro sin dall’inizio dovrebbe diventarlo adesso che le economie più deboli della zona euro sono soggette provvedimenti punitivi riservati in passato ai paesi a basso o medio reddito caduti nella morsa del Fondo Monetario Internazionale (Fmi) e del G7. Invece di cercare di uscire dalla recessione tramite stimoli e incentivi di natura fiscale e/o monetaria, come hanno fatto la maggior parte dei governi di tutto il mondo nel 2009, questi governi sono stati costretti a fare esattamente il contrario, con un enorme sacrificio a livello sociale.

Al danno si sono aggiunte anche le beffe: le privatizzazioni in Grecia e la “riforma del mercato del lavoro” in Spagna; gli effetti regressivi dell'austerity; il continuo contrarsi e assottigliarsi del welfare, mentre le banche erano salvate a spese dei contribuenti. Tutto ciò dimostra che le autorità europee hanno un’agenda di destra e tentano di sfruttare la crisi per imporre riforme di stampo liberista.

La natura fondamentalmente di destra dell’Unione monetaria è stata istituzionalizzata sin dall’inizio. Le leggi che limitano il debito pubblico al 60 per cento del pil e i deficit di bilancio annuali al 3 per cento del pil, per esempio, pur essendo infrante nella pratica sono restrittive senza motivo in tempi di recessione e di alta disoccupazione. Il mandato della Banca centrale europea, che deve occuparsi esclusivamente dell’inflazione e non dell’occupazione, è un altro brutto segnale. La Federal Reserve statunitense, per esempio, è un’istituzione conservatrice, però è tenuta per legge a preoccuparsi sia della disoccupazione sia dell’inflazione.

La Fed oltretutto – malgrado la sua incompetenza nel riconoscere per tempo una bolla immobiliare da ben ottomila miliardi di dollari che ha poi finito col travolgere l’intera economia degli Stati Uniti – ha dimostrato di essere flessibile di fronte alla recessione, e ha stampato oltre duemila miliardi di dollari nell’ambito di una politica monetaria espansionistica. Da aprile, invece, gli estremisti che dirigono la Banca centrale europea hanno aumentato i tassi di interesse, nonostante una disoccupazione nelle economie più deboli della zona euro che ricorda i livelli della depressione.

Alcuni economisti e osservatori politici sostengono che per funzionare a dovere la zona euro ha bisogno di un’unione fiscale, con un maggiore coordinamento delle politiche di bilancio. Ma la politica fiscale di destra è controproducente, come possiamo testimoniare noi tutti, anche nel caso in cui fosse coordinata meglio. Altri economisti – compreso il sottoscritto – hanno sostenuto che le grandi differenze nella produttività di economie collegate tra loro comportano gravi difficoltà per un’unione monetaria. Se anche tali problemi potessero essere risolti, se il progetto è di destra la zona euro non varrebbe lo sforzo.

Modello afgano

Prima della creazione della zona euro l’integrazione economica europea era di natura diversa. L’Unione europea aveva compiuto alcuni sforzi per migliorare le economie meno performanti e proteggere quelle maggiormente vulnerabili. Ma le autorità europee hanno dimostrato di essere spietate nella loro unione monetaria.

L’idea che l’euro debba essere salvato per il bene della solidarietà europea si scontra con la resistenza opposta dai contribuenti di paesi quali la Germania, i Paesi Bassi e la Finlandia contro il bailout della Grecia. Se è innegabile che in parte tale resistenza si basi su pregiudizi nazionalistici – spesso esaltati dai mass media – le cose non stanno del tutto così. Molti europei non amano l’idea di pagare di tasca propria il bailout delle banche europee colpevoli di aver erogato prestiti rischiosi. E le autorità europee non stanno “aiutando” la Grecia, non più di quanto gli Stati Uniti e la Nato stiano “aiutando” l’Afghanistan – se vogliamo riferirci a un dibattito più o meno analogo, nel quale chi si oppone a politiche distruttive è etichettato come “retrogrado” e “isolazionista”.

Pare, per altro, che buona parte della sinistra europea non capisca la natura di destra delle istituzioni, delle autorità e soprattutto delle politiche macroeconomiche che governano la zona euro. Ciò rientra nel problema più generico dell'incomprensione da parte dell’opinione pubblica delle politiche macroeconomiche mondiali, che ha consentito alle banche centrali di destra di mettere in atto politiche distruttive sotto governi di sinistra.

Questa incapacità di comprendere come stanno veramente le cose, insieme alla mancanza di stimolo democratico, possono contribuire a spiegare il paradosso per il quale l’Europa ha politiche macroeconomiche più di destra degli Stati Uniti, malgrado abbia sindacati estremamente più forti e basi istituzionali ispirate a politiche più progressiste
* Fonte: www.presseurop.eu/it Originale in The Guardian del 13 luglio 2011
** Traduzione di Anna Bissant

La Germania si sveglierà europea

La Repubblica Roma
Chiunque sia il vincitore delle elezioni del 22 settembre, dovrà ridare slancio alla costruzione dell'Europa politica e rimediare agli errori commessi finora.
«L’idea che i tedeschi vogliano giocare un ruolo speciale in Europa è un fraintendimento », ha rassicurato Schäuble. «Non stiamo chiedendo agli altri di essere come noi. È un’accusa insensata quanto gli stereotipi nazionali che si nascondono dietro a dichiarazioni del genere». Ma i fatti raccontano un’altra storia, come ha riscontrato il politologo Edgar Grande in uno studio a livello europeo. Grande e i suoi collaboratori hanno analizzato il dibattito sulla crisi dell’euro in diversi contesti nazionali: dai risultati emerge una differenza chiarissima fra la Germania e gli altri Paesi europei, Regno Unito compreso.
Mentre in tutti i Paesi soggetti sovranazionali come la troika sono riconosciuti come protagonisti capaci di influire sulle sorti della nazione, in Germania nessuno ne parla: questo significa che il dibattito tedesco sulla crisi dell’euro è innanzitutto un dibattito nazionale, mentre in tutti gli altri Paesi è un dibattito europeo dominato da soggetti sovranazionali e tedeschi. Questi dati empirici confermano chiaramente la mia diagnosi sull’«Europa tedesca », che a causa della crisi dell’euro si è evoluta in entrambi i sensi.
Mentre in tutti i Paesi d’Europa la Germania è al centro del dibattito nazionale, in Germania il dibattito si concentra quasi esclusivamente sulla Germania. Con le imminenti elezioni politiche (il 22 settembre), un osservatore straniero che venga a Berlino si aspetterebbe di trovare polemiche accese sull’Europa. E invece la Germania sembra stranamente distaccata. La campagna elettorale si è concentrata finora sul Datagate, sull’aumento del costo dell’energia, sulle strutture per l’infanzia. E basta. La Germania, il Paese chiave per risolvere la crisi dell’euro, sembra immune ai laceranti dibattiti sulle diverse opzioni disponibili (nessuna delle quali a costo zero).
Da quando è cominciata la crisi dell’euro, molti governi in carica, in tutta Europa, hanno perso rovinosamente le elezioni. Per la cancelliera tedesca sembra profilarsi invece una riconferma. I tedeschi adorano Angela Merkel, innanzitutto perché pretende pochissimo da loro. E poi perché la Merkel sta mettendo in pratica un nuovo stile di potere politico, il merkiavellismo. «È meglio essere amato che temuto, o ’l converso? », chiedeva Machiavelli nel Principe. E rispondeva «che si vorrebbe essere l’uno e l’altro; ma, perché elli è difficile accozzarli insieme, è molto più sicuro essere temuto che amato, quando si abbia a mancare dell’uno de’ dua».
Merkiavelli sta applicando questo principio in modo nuovo e selettivo. All’estero dev’essere temuta, in casa amata (forse perché ha insegnato ai Paesi stranieri a temerla).
Neoliberismo brutale per il mondo esterno, concertazione con una spruzzata di socialdemocrazia in casa: questa è la formula di successo che ha sistematicamente consentito
a Merkiavelli di espandere il suo potere e quello della Germania. E c’è una discrepanza clamorosa anche per quanto riguarda le posizioni delle classi dirigenti e dei partiti politici. In tutti i Paesi europei ci sono forti movimenti euroscettici o antieuropeisti, e partiti che danno voce a una cittadinanza sempre più insofferente. Per questi cittadini le politiche di rigore imposte dai loro governi sono una mostruosa ingiustizia. Stanno perdendo l’ultimo barlume di speranza e fiducia nel sistema politico nazionale ed europeo. Anche in questo caso, la Germania fa eccezione.

Consenso trasversale

Qui troviamo una rara situazione di consenso. I due partiti di opposizione, i socialdemocratici e i verdi, contestano i piani di austerity della cancelliera su alcuni dettagli, ma in Parlamento hanno sempre votato con lei. Invece, due dei partiti che sono al governo con la Merkel, la bavarese Csu e la liberale Fdp, sono su posizioni nettamente distanti da quelle del loro stesso esecutivo. Il risultato è che il dibattito sulla crisi dell’euro in Germania manca di un’opposizione in Parlamento. Al suo posto c’è una strana mescolanza di favorevoli e contrari: da un lato, una grosse Koalition non dichiarata tra governo e opposizione, nello specifico socialdemocratici e verdi; dall’altro lato, Csu e Fdp, che teoricamente fanno parte della coalizione di governo, che si oppongono a questa grosse Koalition. Su ogni decisione importante, quando la cancelliera rischia di non trovare il pieno sostegno dei suoi alleati, si assiste a uno strano scambio di ruoli «alla tedesca ».
la crisi europea sta arrivando al dunque, e la Germania si trova di fronte a una decisione storica
Ma la crisi europea sta arrivando al dunque, e la Germania si trova di fronte a una decisione storica: tentare di rilanciare il sogno e la poesia di un’Europa politica nell’immaginazione della gente o restare attaccata a una politica del tirare a campare e usare l’esitazione come mezzo di coercizione, finché euro non ci separi. La Germania è diventata troppo potente per permettersi il lusso dell’indecisione e dell’inattività, eppure va avanti come un sonnambulo per la sua strada. O – per citare Jürgen Habermas – «la Germania non sta ballando, sta sonnecchiando su un vulcano».
E poi c’è un ultimo paradosso: anche se la Germania sta sonnecchiando su un vulcano, anchese non c’è nessun dibattito sul momento della decisione, l’esito più probabile delle elezioni sarà favorevole a ulteriori progressi verso l’unione politica del continente. Con ogni probabilità Angela Merkel resterà alla guida del Paese per un terzo mandato e mi aspetto che ci sia una svolta non dichiarata verso una politica più europeista. Dopo tutto, cambiare posizione è l’elemento chiave del merkiavellismo. E salvare l’euro e l’Unione Europea fa fare bella figura sui libri di storia.
Nell’improbabile eventualità che la Merkel non venga rieletta, un governo rosso-verde si darebbe da fare, insieme a Francia, Italia, Spagna, Polonia ecc. per correggere l’errore di progettazione dell’unione monetaria e fare il passo successivo verso il completamento dell’unione politica, producendo una situazione in cui la Merkel, all’opposizione, costituirebbe il socio ufficioso di una grosse Koalition.
Guardiamo le elezioni tedesche attraverso gli occhi degli altri. Nei governi, nelle strade d’Europa e nei corridoi di Bruxelles, tutti aspettano di vedere in che direzione andrà Berlino.
«Probabilmente sono il primo ministro degli Esteri in tutta la storia della Polonia a dire una cosa del genere », ha dichiarato Radek Sikorski nel 2011, «ma è così: più che la forza della Germania sto cominciando a temere l’inattività della Germania». A partire dal 23 settembre, il giorno dopo le elezioni, in una costellazione o nell’altra la domanda «quale Europa vogliamo e cosa dobbiamo fare per arrivarci?» sarà al centro della politica tedesca ed europea. Speriamo che sia ein anderes Europa, un’altra (e cosmopolita) Europa, capace di far sentire la sua voce in un mondo a rischio, e non eine Deutsche Bundesrepublik Europa, una repubblica federale tedesca d’Europa.

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