Ο παγκοσμοποιημένος καπιταλισμός βλάπτει σοβαρά την υγεία σας.
Il capitalismo globalizzato nuoce gravemente alla salute....
.... e puo' indurre, nei soggetti piu' deboli, alterazioni della vista e dell'udito, con tendenza all'apatia e la graduale perdita di coscienza ...

(di classe) :-))

Francobolllo

Francobollo.
Sarà un caso, ma adesso che si respira nuovamente aria fetida di destra smoderata e becera la polizia torna a picchiare la gente onesta.


Europa, SVEGLIA !!

Europa, SVEGLIA !!

sabato 18 agosto 2012

Ma l’Europa siamo noi, non la larva che ci impone sacrifici

 

- libreidee -
Marine Le PenChe cos’è, insomma, l’Europa? Lontano da qui, disseminata tra Bruxelles e Strasburgo, c’è una selva di edifici in acciaio e cristallo, di uffici lussuosi, di sale da riunione e da conferenza; una pletora di dirigenti, di parlamentari, di funzionari, d’interpreti e di consulenti ben pagati, qualcuno strapagato; una Commissione Europea, un Consiglio d’Europa, un Parlamento Europeo, ma nessun leader nel quale la gente possa identificarsi o col quale possa prendersela se e quando le cose vanno male. C’è una Banca Centrale Europea che non è pubblica, quindi è in mano ai suoi anonimi o semianonimi azionisti: stampa euri e detta legge sui nostri bilanci e sulle nostre tasche.
C’è una bandiera azzurra e stellata, bella ma àlgida, sulla quale non ha mai pianto nessuno, che non ha mai avvolto al bara di un ragazzo morto per difenderla, che quando sventola fa un bell’effetto ma non commuove. C’è un inno preso in prestito da Beethoven, bellissimo, ma le parole di Schiller che lo accompagnano quasi nessuno le conosce e comunque sarebbero inadatte a esser cantate: e nessuno ha mai pensato sul serio a scrivere un testo che potrebbe rappresentare i sentimenti collettivi di tutti i ventisette stati membri ed esser tradotto in tutte le loro lingue. Non c’è un esercito europeo, perché l’organizzazione militare comunitaria è in realtà quella della Nato, egemonizzata da una potenza che sarà anche amica ed alleata, ma ch’è pur sempre straniera: un’organizzazione che ad esempio impone (la notizie è di metà aprile) l’organizzazione di un costoso “scudo” antimissilistico non si capisce né chiesto da chi né utile a chi né indirizzato a difenderci dalle minacce di chi
I paesi europei hanno rinunziato alla sovranità economico-monetaria, a quella diplomatica, a quella difensiva, ma tali forme di sovranità non sono gestite da nessun vero e proprio governo sovranazionale. L’Unione Europea non ha ancora deciso nemmeno se organizzarsi in Federazione all’americana o alla tedesca o in Confederazione alla svizzera. Eppure, questa larva semisconosciuta e non amata dai suoi cittadini chiede continui sacrifici, impone tagli e balzelli. E dappertutto sorgono ormai, contro di essa, gruppi e movimenti che da “euroscettici” si stanno trasformando sempre più in veri e propri antieuropeisti: nostalgici delle piccole patrie che c’erano prima o utopisti che rivendicano la fondazione o la resurrezione di patrie mai esistite oppure defunte da secoli. Partiti ostili all’Europa stanno sorgendo dappertutto, e in molte nazioni assumendo il potere, com’è accaduto in Ungheria. In Francia, sembra che l’ago della bilancia per l’elezione del nuovo presidente sia costituito dagli antieuropeisti del Front National, oggi corteggiato sia da Sarkozy, sia da Hollande.
Eppure, l’“Unione non unita” ha avuto una primavera, è stata una speranza e addirittura un ideale. Ne so qualcosa io, che me ne innamorai ventenne, nel 1960, dopo aver ascoltato alla Tv una breve, commossa allocuzione del cancelliere Konrad Adenauer dove si parlava di quest’Europa ch’era una patria da amare per tutto quel che aveva e che significava: per le cicogne sui tetti di Norimberga, per i vigneti della Borgogna, per la pianura infinita della Meseta, per il mare di Capri; ma soprattutto per la sua storia tormentata eppure tanto “profondamente nostra”, per le guerre fratricide che avevamo combattuto e che non dovevano più dividerci, per le comuni radici cristiane testimoniate dalle nostre cattedrali, per i nostri popoli che attraverso errori e sofferenza avevano imparato ad amarsi tra loro e a ritenersi reciprocamente complementari, per i nostri ragazzi di domani che avrebbero abbattuto le frontiere e bruciato gli inutili passaporti.
Molti paesi europei avevano sognato nei secoli passati di dominare il mondo con la forza, e non c’erano riusciti: insieme, saremmo stati invincibili e saremmo riusciti a imporre al mondo non la legge della guerra, bensì quella dell’amore e della fratellanza tra i popoli. Che cosa è andato storto, da allora? Che cosa non ha funzionato, di quel bellissimo sogno? La verità è che, nell’edificare la “casa comune europea”, abbiamo sbagliato l’ordine costruttivo. Una realtà civile e sociale si costruisce dalle fondamenta: cioè dalla riflessione storica, dalle istituzioni politiche e amministrative, dall’educazione dei giovani (quindi dalla scuola), dalla difesa. Infine il tetto: la moneta e i meccanismi finanziari. Ma noi non abbiamo avuto fino dagli Anni Cinquanta il coraggio d’innovare quel che andava innovato e di fondare quel che doveva essere fondato. Avremmo dovuto costruire l’Europa dei popoli e delle loro tradizioni: abbiamo costruito l’Europa dei governi e l’Eurolandia delle banche.
Dalla Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio, del ’51, passammo alla Comunità Economica Europea nel ’52 per trasformarla a Maastricht, nel ’92, in Comunità Europea: solo allora si assunse la denominazione di “Unione Europea”, in realtà un guscio istituzionale vuoto. Avremmo avuto bisogno di edificare giorno per giorno una coscienza civica europea, diciamo pure un “patriottismo europeo”, cominciando con il conferire uno spirito nuovo a tutte le scuole. Si sarebbe dovuto studiare una storia comune europea in grado di accompagnare le nostre storie nazionali e di conferir a ciascuno di esse il senso di una convergenza e di una complementarità nuova. Oggi la bandiera azzurro-stellata sventola su tutti gli edifici scolastici, ma non si riflette in nessun programma concreto d’apprendimento. Tornano le piccole patrie e i micronazionalismi isterici, da stadio; oppure trionfa l’individualismo sterile ed egoistico, incapace di creare valori civili.
E allora? Abbandonare tutto e dire che ci siamo sbagliati, rinunziare per tornar a un pulviscolo di Stati senza forza e senza autorevolezza, vasi di coccio minacciati dai colossi internazionali e dalla potenza occulta ma formidabile delle lobbies? Adattarci a far parte di un generico “Occidente” atlantico nel quale doversi rassegnare a una funzione definitivamente subalterna? O ricominciare da capo, da ora, da subito, reinsegnando ai ragazzi del secondo decennio del XXI secolo quel che avremmo dovuto insegnar a quelli di mezzo secolo fa e imponendo nuove forme di rappresentanza politica diretta scelte dagli europei nel loro complesso, che non proiettino più sull’Unione i condizionamenti delle singole politiche nazionali? Quanto tempo perduto, quante occasioni sprecate, quante speranze gettate al vento…Eppure, non è mai troppo tardi.
(Franco Cardini, “Europa, la civiltà prima dei sacrifici”, dal blog di Cardini del 24 aprile 2012).

Derubare i poveri: ieri il terzo mondo, oggi tocca a noi

- libreidee -

Sonia SavioliAttenti, siamo al capolinea: dietro al crac mondiale della finanza, quello che oggi ci opprime con tagli drammatici al nostro benessere, c’è la fine di un’epoca, quella del capitalismo che si è globalizzato per sopravvivere e ora si ritorce contro i lavoratori dell’Occidente, ormai impoveriti e ridotti a consumatori con le tasche vuote. «Per spiegare la crisi si parla sempre di banche e di debito pubblico, di finanza piratesca e di speculazioni, ma tutto questo non è che la deriva di un’economia: come le metastasi di un tumore, non sono che lo sviluppo “naturale” del cancro stesso», afferma la saggista Sonia Savioli.
Alla base di qualsiasi economia ci sono due cose: risorse e lavoro umano. «In un’economia capitalista, e cioè in una società di dominio e competizione, le risorse materiali vengono sottratte all’ambiente e ai popoli che di esse vivevano senza alcuno scrupolo e senza alcun limite». Quanto al lavoro, «significa il maggior sfruttamento possibile, considerati i rapporti di forza».
Inevitabile, aggiunge la Savioli sul “Cambiamento”, che la competitività capitalistica cerchi sempre di superare i limiti, di “crescere”: «La globalizzazione è stato un salto quantitativo e qualitativo in tale crescita: i capitalisti di tutto il mondo hanno cominciato a “de-localizzare”». Neologismo che nasconde una verità indecente: «Significa far produrre le proprie merci in paesi asserviti e impoveriti, per non pagare i lavoratori ridotti ormai a poco più che schiavi».
All’inizio, la globalizzazione ha sospinto vertiginosamente i consumi nel mondo occidentale, quello dominante: «I paesi asserviti ci davano le loro preziose materie prime in cambio di quasi nulla, le loro popolazioni asservite lavoravano per i nostri capitalisti (detti “imprenditori”) in cambio di quasi nulla. Così noi per quattro lire potevamo comperare cibo e benzina, scarpe e vestiti, borse e mobili». Qualche inconveniente si manifestò subito: «I nostri contadini, per esempio, si trovarono a dover fronteggiare la concorrenza dei prodotti agricoli che venivano dai paesi schiavi e che costavano cifre da vergogna. Arrendersi o perire. Furono costretti a rinunciare all’agricoltura o ad abbassare i prezzi a livelli schiavistici».
L’Italia, aggiunge Sonia Savioli, è piena di piccoli agricoltori che fanno il doppio lavoro: un lavoro fuori dalla loro azienda per mantenere la famiglia, l’altro nella loro campagna perché non hanno cuore di abbandonarla. «Ma finché si trattava dei contadini, questi fantasmi della nostra civiltà che danno da mangiare a tutti, nessuno si mise a parlare di crisi». Del resto, «come si poteva parlare di crisi mentre il potere d’acquisto degli italiani cresceva vertiginosamente e ci rotolavamo in un’orgia di consumi superflui e spreco?». Infatti, «i bambini indiani producevano le nostre scarpe e i nostri tappeti, quelli turchi i nostri golfini, gli schiavi della Del Monte i nostri ananas». E intanto, «noi lavoravamo come operai elettronici, impiegate, architetti d’interni, programmatori informatici».
Poi, però, il lavoro è andato scemando man mano che sono state “delocalizzate” tutte le attività che era conveniente trasferire in paesi a basso costo. «Tutto questo non poteva avere che una conseguenza a lungo andare: la disoccupazione dei lavoratori occidentali».
Se produzione, terziario e persino servizi come i call center vengono spostati nei paesi in cui gli operai sono sottopagati, a quel punto i lavoratori occidentali possono scegliere solo tra disoccupazione o condizioni di lavoro da terzo mondo: «Che fine faranno i consumatori occidentali, che sono stati le colonne della “crescita” e dello “sviluppo”?». Destino segnato, il nostro: fatale declino, causato dalla scomparsa di lavoratori adeguatamente remunerati. «Con quali soldi il disoccupato, il co.co.co., il sottopagato possono pagare i mobili anche se fatti in Indonesia, le scarpe pachistane, le borse cinesi?».
Crollo già scritto, come quello di qualsiasi altro impero della storia: «La globalizzazione neoliberista era solo l’inizio dell’implosione finale: un’economia basata sui consumi superflui e frenetici è riuscita, per la brama insaziabile di sviluppo e crescita insita in lei stessa, a distruggere le basi sulle quali poggiava», cioè «il consumatore occidentale e il consumismo», pure sviluppatosi slealmente, sulla pelle del terzo mondo: «Quell’impoverimento era una delle condizioni dell’aumento del profitto capitalista e della ricchezza occidentale». E adesso? Si potrebbe dire: chi la fa, l’aspetti. «Non ci siamo mai preoccupati delle crisi che il neoliberismo imponeva ai paesi di Africa, Asia, America Latina, est Europa. Non abbiamo lottato per migliori condizioni di lavoro di operai o braccianti o minatori peruviani o senegalesi. Se l’avessimo fatto, forse non avremmo subito la loro involontaria concorrenza; forse il neoliberismo sarebbe crollato prima di distruggere ambiente e società umana; forse la storia avrebbe preso un altro corso».
Ora, aggiunge Sonia Savioli, lo sfruttamento disumano di quei popoli si ritorce contro di noi, che finora ne avevamo beneficiato. «Adesso anche i nostri governi, del tutto asserviti agli interessi del grande padronato mondiale, ci “svendono” ai loro e nostri padroni: riducono salari e servizi sociali, aumentano tasse e vincoli in modo da distruggere anche la piccola impresa privata e il piccolo commercio, eliminando i diritti dei lavoratori». Tutto questo non farà che accelerare la conclusione: impoverire i ceti medi, dopo i lavoratori salariati, non potrà che diminuire anche i consumi che finora avevano retto. Quanto al mitico debito pubblico, divenuto un incubo con la perdita della sovranità monetaria e l’aberrazione del Fiscal Compact, l’autonomia di spesa dello Stato ridotta a zero grazie ai trattati-capestro firmati a Bruxelles, la Savioli non fa distinzione tra debito “utile”, cioè investimento
a deficit positivo, e debito “canaglia”, quello fondato sul puro
spreco, sull’abnorme spesa militare o sulle “grandi opere inutili” come il Tav. Il punto è un altro, sostiene l’analista: «Non è affatto vero che si cerchi di diminuire quel debito».
«Quello che il nostro governo cerca di fare, dato che le vacche grasse sono finite e non si possono più salvare capra e cavoli, è far mangiare i cavoli alla capra. I cavoli siamo noi e ci tolgono le pensioni, i trasporti pubblici, gli insegnanti di sostegno e le mense universitarie, oltre a tassarci la casa, il campo e poi tutto, compresa l’acqua del rubinetto». Attenzione: «La capra sono i padroni, che prendono soldi dallo Stato per fare i raddoppi delle autostrade, i viadotti e i Tav, gli inceneritori, e a cui vengono regalate le ferrovie». In questa crisi, le banche hanno supportato il credo dello sviluppismo capitalista, e cioè: rubare ai poveri per dare ai ricchi. «Perché quello che nessuno dice è che le banche appartengono agli stessi che costruiscono autostrade e ferrovie ad alta velocità, dighe e palazzoni, catene di ipermercati. Le banche prestano i nostri soldi ai loro padroni per costruire i palazzoni o le catene di ipermercati; se poi i palazzi non si vendono o gli ipermercati sono in perdita, lo Stato rimpingua le banche coi nostri soldi», e il cerchio si chiude. Mentre il mondo, là fuori, sta letteralmente rischiando il collasso, mettendo a rischio le uniche cose su cui si basa la nostra sopravvivenza: suolo, aria, acqua.

venerdì 17 agosto 2012

Quelli che: “faremo la spesa con la carriola”


Come ogni ideologia, anche il luogocomunismo rinsalda il consenso col terrore. Che qualcosa suoni falso, nei grandi proclami ideologici, nel grande sogno europeo, i meno sprovveduti lo intuiscono presto. Basta leggere sul Sole 24 Ore le lucide parole di Da Rold: per un paese dell’eurozona, in caso di crisi “non ci sono alternative: o si svaluta la moneta (ma nell’euro non si può più) o si svaluta il salario”. Impeccabile: come ogni economista sa, e come del resto lo stesso “padre dell’euro”, Mundell, tranquillamente ammetteva, lo scopo del gioco, nelle unioni monetarie, è “disciplinare” i lavoratori, scaricando su di essi e solo su di essi il peso degli shock avversi. Il meccanismo funziona alla perfezione, se non fosse per un dettaglio: quando la crisi arriva, anche chi non se ne fosse accorto prima intuisce di aver preso una fregatura. Interviene allora, puntuale come un detonatore svizzero, il terrorismo, per convincerlo che nella trappola è meglio restarci.
Il terrorismo più naif echeggia le parole della nuova guida (rinuncio a tradurre) europea, Angela Merkel: “fuori dall’euro c’è la guerra!” Ma alla guerra, oggi, in Europa, non ci crede più nessuno: tutti pensano che sia ormai una cosa per persone dal colore della pelle diverso dal nostro, una cosa che quindi non ci fa più paura, a casa nostra, di quanta ce ne facciano la malaria o i tifoni.
Il terrorismo si fa allora più subdolo: “fuori dall’euro c’è l’iperinflazione, sarà come a Weimar, andremo a fare la spesa con una carriola di monete, compreremo il giornale con un chilo di lire in tasca”. Affermazioni confezionate sapientemente, per far breccia nelle menti degli elettori più ingenui (sperando siano i più numerosi). In queste parole lievemente imprecise certo non può esserci buona fede. Cerchiamo di riportarci almeno un minimo di buon senso:
(1) Tutti concordano sul fatto che si tornerà alle valute nazionali con un cambio uno a uno: un euro per una “nuova lira” (vedi Sapir, Bootle, ecc.). È la cosa più semplice e razionale da fare per facilitare la transizione e per evitare fregature come quella che ci siamo presa con il passaggio dalla lira all’euro (vedi oltre).
(2) Ci sarà una svalutazione, ovvio: usciamo proprio per non essere stritolati da un cambio troppo forte. Di quanto sarà? Le stime vanno da un 20% (Altomonte) a un 30% (Bootle).
(3) Come si calcola? Andando a vedere quanta competitività abbiamo perso rispetto al nostro principale partner commerciale (la Germania): il cambio nominale si muoverà per compensare questa perdita. Questo dice la teoria della parità dei poteri d’acquisto, che (giusta o sbagliata che sia) è quella cui fanno riferimento gli stessi mercati nel formulare le loro previsioni. È già successo. Fra 1992 e 1993 la svalutazione fu di circa il 20%, perché nei cinque anni precedenti, quelli seguiti all’ultimo riallineamento dello Sme (1987-91), l’inflazione italiana era stata in media di quattro punti più alta di quella tedesca: come da copione, il cambio recuperò con 5×4=20 punti di svalutazione.
(4) Sarà una catastrofe? No. Tanto per capirci, questo è più o meno l’ammontare della svalutazione che subì l’euro nel primo anno di vita (26.7% dal gennaio 1999 all’ottobre 2000). Attenzione: noi l’euro non lo avevamo ancora in tasca, ma già lo usavamo negli scambi internazionali, cioè per comprare i dollari necessari ad acquistare le materie prime (i cui prezzi erano in crescita). Qualcuno ricorda carriole in giro per le strade?
(5) L’inflazione aumenterà di 30 punti, arrivando al 33%! No, appunto. Il coefficiente di trasferimento della svalutazione sull’inflazione è di norma molto inferiore a uno. Nel 2000, nonostante l’euro si fosse svalutato di quasi il 30% dall’anno precedente, l’inflazione aumentò di un solo punto (dall’1.6% al 2.6%). Nel 1993 il tasso di inflazione addirittura diminuì di mezzo punto (dal 5% al 4.5%). E la sapete la cosa più divertente? Perfino il prof. Monti ammise che la svalutazione (di circa il 20%) ci aveva fatto bene!
Insomma: l’idea dell’on. Bersani che il giorno dopo la liberazione andremo a comprare il giornale con 2323 monete da una lira in tasca (al posto di 1,20€) è molto pittoresca. A noi piace ricordarlo così, con la sua eloquenza immaginifica e le sue maniche rimboccate, a ostentare pragmatismo. Se il governo farà il suo lavoro, ci si andrà con 1.20 nuove lire, che diventeranno 1.30 dopo un anno (contando che l’inflazione aumenti di 6 punti, ad esser pessimisti). Non mi pare una tragedia, rispetto al devastante cambio 1000 lire = 1 euro, che abbiamo subìto per la colpevole inerzia del governo Berlusconi. Proprio questa esperienza recente ci aiuterà a fare più attenzione.

Castells: l’indignazione, la speranza.

INTERVISTA A MANUEL CASTELLS - democraziakmzero


Questa ampia intervista è stata concessa da Manuel Castells, sociologo catalano che insegna negli Stati uniti, uno dei maggiori studiosi di internet – tra le altre cose – a Francesco Guaita per la televisione russa Rt-Tv. Ed è stata trascritta e pubblicata dal sito brasiliano Outras Palavras ( www.outraspalavras.net), con una introduzione di Antonio Martins. DKm0 ha tradotto in italiano l’introduzione e l’intervista a Castells.
Manuel Castells sembra più intenzionato che mai a ricavare, dalle sue teorie, delle soluzioni politiche. Nelle prossime settimane presenterà la prima edizione, in castigliano, di “Redes de indignación y esperanza”, il suo nuovo libro. L’autore di opere come la trilogia “L’età dell’informazione”, che hanno contribuito a decifrare le tendenze a lungo termine della società e della democrazia contemporanee, è convinto della necessità di agire rapidamente, prima che queste tendenze svaniscano.
Attento osservatore e collaboratore attivo degli indignados spagnoli, questo sociologo di fama internazionale è solito ripetere che il cambiamento di mentalità, quello che il movimento desidera, richiede tempo. Ma è possibile aspettare?
Castells ha anche notato che la vecchia democrazia si è chiusa su se stessa, a causa di due fattori principali. Una piccola oligarchia legata alla finanza, si arricchisce grazie allo Stato. Sono gli investitori in titoli di Stato, i cui rendimenti miliardari non sono più direttamente connessi alla produzione: dipendono da governanti disposti a mantenere alti tassi di interesse, a lasciar libere le banche di controllo, a tagliare i bilanci statali a favore di altre classi sociali – come il funzionamento dei servizi pubblici, delle pensioni e dei programmi redistributivi.
E questa oligarchia, che ha ampie risorse per finanziare le campagne elettorali, finanziare i media tradizionali e produrre una azione intensa di “lobby”, si associa nella maggior parte dei paesi a una classe di “politici di professione” che tende all’autismo. Preoccupati di mantenere il loro potere, rifiutano le molteplici opportunità democratiche che le nuove tecnologie offrono. Spesso ricorrono alla violenza della polizia. Permanentemente minacciano la stessa libertà in Internet.
E’ nella rete, come sappiamo, che Castells vede, da tempo, la speranza. Qui, i cittadini stanno moltiplicando i modi di produrre collettivamente, di cambiare senza dipendere dal denaro, di creare reti di informazione reciproca. Questa immensa rete di relazioni democratiche e partecipative nuove non si è estesa alle istituzioni perché questo non interessa l’oligarchia finanziaria e i politici di professione.
Castells non si arrischia a prevedere il disastro di questo scontro latente. Sa che ci sono dei rischi: se il sistema rimane chiuso, i movimenti “si radicalizzeranno inevitabilmente ” – e questo può includere la violenza, ciò che può fare il gioco delle classi dominanti.
Contro questo e altri rischi, Castells scommette sul movimento stesso – e su una nuova ondata di possibili proteste. Grazie all’indignazione, dice, le società stanno cominciando a superare la paura che le paralizzava. Ora, che perché non si generi solo rabbia, questa indignazione deve diventare speranza e alternative. È questa la sfida che il docente catalano – espulso dalla Spagna dal regime franchista e dalla Francia per essere stato considerati un promotore dei movimenti del 1968 – sembra disposto ad affrontare. Qui offriamo l’intervista che ha concesso il 17 luglio alla rete televisiva internazionale Russia Rt. (Antonio Martins)
Di solito lei dice che il potere non è alla Casa Bianca, o sui mercati finanziari, ma nel nostro stesso cervello. Perché questo è un segreto delle élites?
Beh, è perché se loro lo confessassero, perderebbero il potere. Il vero potere non è il potere della polizia o dell’esercito: questi sono usati in ultima analisi, quando le cose vanno molto male per gli interessi dei potenti. La cosa più importante, se lei vuole avere potere su di me, è riuscire a farmi pensare in un modo che favorisca quello che vuole, o che mi spinga a rassegnarmi. Lì è il potere! Per questo, l’essenziale è il potere che sta nella mente, e la mente si organizza in funzione di reti di comunicazione, reti neurologiche nel nostro cervello, che sono in contatto con le reti di comunicazione nel nostro ambiente. Chi controlla la comunicazione controlla il cervello e in questo modo controlla il potere.

Quali politiche dell'eguaglianza

Gli effetti della rivoluzione conservatrice. Il tratto fondamentale del nostro tempo, il tono dell'epoca, è dato dal crescere smisurato della diseguaglianza. In tutti i paesi.


di Luigi Agostini - rassegnait -
Quali politiche dell'eguaglianza, foto di sakocreative (immagini di foto di sakocreative)
Il tratto fondamentale del nostro tempo, il tono dell’epoca, è dato dal crescere smisurato della diseguaglianza. In tutti i paesi, una piccola percentuale di popolazione detiene la gran parte dei redditi e dei patrimoni. Il fatto da sottolineare è che tale processo non è tanto un prodotto puramente ereditato dal passato, ma il frutto invece di un’inversione della tendenza di tutto il dopoguerra, di una rottura – affermatasi fino agli anni ottanta – di una politica di contrazione delle diseguaglianze.

Molti sottolineano come l’esplosione delle diseguaglianze metta in discussione l’essenza stessa dell’ideale democratico. Le grandi rivoluzioni della fine del Settecento – quella americana e quella francese – non avevano mai separato la democrazia come regime della sovranità del popolo dalla democrazia come forma di una società di eguali. Condorcet riassumeva cosi l’idea di modernità che aveva ispirato la rivoluzione francese: una marcia continua verso l’eguaglianza tra le nazioni e all’interno delle singole nazioni, la formazione progressiva di un homo aequalis rispetto al precedente homo hierarchicus della società nobiliare.

La diseguaglianza deve quindi essere pensata come un fatto sociale totale: non si limita solo a una pure nevralgica questione di redditi e patrimoni, ma investe le basi del vivere in comune. Con i suoi effetti in termini sociali di secessione, di separazione, di ghettizzazione; con i suoi effetti in termini politici di crisi della democrazia e di destabilizzazione delle varie forze della sinistra, storicamente portatrici dell’idea di eguaglianza. Oggi, come i più acuti osservatori sostengono, stiamo vivendo il tempo della secessione dei ricchi. L’eguaglianza delle opportunità è ancora, nella sinistra, l’idea dominante. È inevitabile chiedersi quale relazione si è realizzata tra tale idea di eguaglianza e il processo esplosivo delle diseguaglianze, che ha proceduto dagli anni ottanta.

L’eguaglianza delle opportunità, che ha trovato in Italia nel famoso discorso di Claudio Martelli sui “meriti e i bisogni” la sua formulazione più efficace, e nella pratica blairiana l’esperienza più organica, fonda una teoria della giustizia come teoria delle diseguaglianze legittime che porta a conseguenze disarmanti: una dissociazione tra giustizia distributiva e giustizia redistributiva, marginalizzando l’aspetto della redistribuzione; l’improponibilità del discorso sul livello minimo di risorse che una società democratica deve assicurare a tutti i suoi membri; una riduzione della questione sociale al tema della povertà, da affrontare attraverso la solidarietà umana piuttosto che attraverso la solidarietà di cittadinanza. In sostanza, un ritorno all’età delle leggi sui poveri, quelli che non arrivano alla fine del mese.

L’eguaglianza delle opportunità si è risolta, nel concreto, in un assecondamento più che in un contrasto delle dinamiche antiegualitarie della cosiddetta rivoluzione conservatrice. In verità, il vento della rivoluzione conservatrice, nel suo procedere, non ha incontrato ostacoli insormontabili. Una riformulazione dell’idea di eguaglianza diventa essenziale per il futuro della sinistra di matrice socialista. L’esplosione della grande crisi – è la crisi che dà, è la crisi che toglie e, ricorrendo a esempi domestici, ne sanno qualcosa Berlusconi e Bossi, ma anche Veltroni, che propone al Lingotto un partito liberal, mentre nel mondo esplode la più grande crisi del capitalismo – ripropone il discorso sull’eguaglianza in tutta la sua nettezza ed essenzialità.

Oggi, al tempo dell’individuo, l’eguaglianza può essere riproposta in tutta la sua potenza di idea-forza nel produrre e nel vivere il Comune e i suoi corollari, i Beni Comuni, come perno dell’organizzazione sociale, della società. Siamo, come sostiene Pierre Rosanvallon, alla seconda crisi dell’eguaglianza, dopo quella agli inizi del Novecento; alla prima, che la destra costruì attorno alle idee-forza del nazionalismo, della xenofobia, del protezionismo, la sinistra rispose con lo Stato sociale redistributivo. Nell’attualità, la risposta non può che essere più complessa: si tratta di passare dalla “solidarietà meccanica tra simili (di categoria, di etnia, di religione ecc) alla solidarietà organica tra singoli”, per usare la formula di Émile Durkeim.

Il quadro concettuale va riordinato quindi alla radice per rispondere alla stessa crisi: invece che meriti e bisogni, capacitazione e diritti, sul percorso indicato già dagli anni novanta da Martha Nussbaum, da Amartya Sen, da Bruno Trentin. L’affermazione dell’idea socialista nel ventunesimo secolo si giocherà attorno alla questione della democrazia integrale e del suo connotato egualitario; ma tale affermazione implica la costruzione di una macchina politica con molti motori – sindacato, cooperazione, autorganizzazione, movimento dei consumatori ecc –, che sappiano sprigionare nel loro operare quotidiano l’orwelliana air de l’égalité.

* Vicepresidente Federconsumatori

Lezione dal Brasile.

Fonte: repubblica | Autore: paolo corrias
BRASILE OGNI DETENUTO POTRÀ LEGGERE UN LIBRO AL MESE, FARNE UNA RECENSIONE E COSÌ OTTENERE QUATTRO GIORNI DI SCONTO DELLA PENA
 
Il più struggente e anche il più istruttivo elogio del libro arriva dalle carceri brasiliane. È un elogio che ci riguarda: perfeziona l'equivalenza universale tra i libri e la libertà. Perché tra i dannati di laggiù si è appena accesa la luce di «una alternativa alla pena» che i legislatori brasiliani hanno intitolato alla «redenzione dei reclusi». È un esperimento varato in quattro carceri, grazie a una legge appena approvata. Dice che ogni detenuto potrà leggere un libro al mese - di letteratura, filosofia o scienza - farne una relazione scritta «con proprietà di linguaggio e accuratezza, dimostrando di averne compreso il valore e il senso» e ottenere in cambio «quattro giorni di sconto pena». Non più di un libro al mese, per ora. Dodici libri all'anno, l'equivalente di 48 giorni di libertà in più.L'idea è così azzeccata, così pertinente, che poteva venire in mente solo a chi ha conosciuto la geometrica afflizione del carcere, il rumore delle serrature, i fantasmi della solitudine. E infatti è stata Dilma Rousseff a idearla. Che molto prima di diventare l'attuale presidente del Brasile è stata incarcerata per tre anni, dal 1970 al 1972. Era la cupa stagione dei generali. Dilma, studentessa di famiglia borghese era entrata nella guerriglia, era stata arrestata a San Paolo con un'arma addosso, aveva subito ventidue giorni di tortura. Da allora non ha mai dimenticato quanti abissi contengano quelle mura. Quanto buio. E quali piccole vie d'uscita possano trasformare i reclusi in «persone migliori».
Il libro è una di quelle vie d'uscita. Perché apre mondi immaginari. Racconta vite vere. Insegna che il destino è multiplo, la malasorte ondivaga, l'odio può essere guarito, la poesia può svelare significati inattesi alla semplice nostalgia di un tramonto, l'amore può cambiarci in una sola sera, e anche la libertà è sempre possibile, ma mai chiudendo gli occhi. «Chiunque di loro avrà una visione più larga del mondo» hanno detto al ministero della Giustizia brasiliano, varando questa legge che punta tanto sui libri, quanto sui detenuti.
Del resto. I vecchi regolamenti del carcere afflittivo, così come le ideologie totalitarie, hanno sempre ostacolato l'ossigeno dei libri. Dittature militari e religiose si sono esercitate a compilare per secoli l'elenco dei proscritti. A organizzarne i roghi: la Chiesa cattolica per quattro secoli, dal Concilio di Trento al Vaticano II, il fondamentalismo islamico anche oggi con la sua sequenza di fatwa e di persecuzioni.
Gli imperi coloniali li proibivano per impedire agli schiavi di diventare uomini. I nazisti perché confutavano il loro desiderio di incendiare il mondo. Stalin perché non riuscivano a spegnere la sua paranoia. Pinochet perché odiava l'ironia del Don Chisciotte. Le artiglierie serbe di Radovan Karadzic perché volevano cancellare non solo le case di Sarajevo, ma anche la memoria, cannoneggiando per tre giorni e tre notti la Biblioteca, fino a ridurla un mucchio di cenere più nera dell'inchiostro andato in fumo.
DILMA-ROUSSEF E L'ARRESTO PER TERRORISMO
Anche la detenzione, in quegli universi totalitari è sempre stata un corrispettivo di quell'odio. Dove gli uomini, se detenuti, diventano libri di memorie inascoltabili. Da sorvegliare e punire. A conferma della profezia di Heinrich Heine: «Dove si bruciano i libri, prima o poi si bruciano anche gli uomini».
Eppure non c'è storia di carcere, dai taccuini di Casanova, alla rabbia di Ed Bunker, passando per la visionarietà di Manuel Puig, dove non si intraveda lo spiraglio di una pagina scritta che fa correre un po' d'aria interrompendo l'apnea della detenzione. Tutti i libri del mondo - e anche uno solo - sono un riscatto dalla punizione. O almeno un suo incantesimo. Basta ascoltare, nelle biblioteche allestite dentro le carceri italiane - 153 su 206 istituti di pena - quel silenzio speciale che si respira nelle ore di lettura. Quando persino le vite accatastate dei 68 mila detenuti diventa un rumore di fondo sopportabile.
La «redenzione attraverso la lettura» avviene già. Sarebbe una straordinaria novità - come in Brasile - se anche da noi esistesse per legge quel piccolo convertitore che calcola i libri in libertà sonante, al cambio attuale della vita.

ECUADOR ASSANGE EX VOTO

giovedì 16 agosto 2012

Ecco cosa nascondono i più ricchi

21 mila miliardi di dollari è la cifra custodita nei Paesi offshore e nelle mani di un'élite di ricchi. Meno di dieci milioni di persone nascondono al fisco una somma pari al Pil di Stati Uniti e Giappone.

Sarah Jaffe - 16.08.2012
Ventunomila miliardi di dollari. È questa la cifra che gli uomini più ricchi del mondo nascondono nei paradisi fiscali offshore sparsi per il Pianeta. Potrebbe anche trattarsi di una somma maggiore - fino a trentadue mila miliardi - ma il suo ammontare complessivo è quasi impossibile da calcolare.
Mentre i governi tagliano la spesa e licenziano lavoratori - perché c'è bisogno di austerità a causa del rallentamento dell'economia - gli ultra-ricchi, meno di dieci milioni di persone, hanno nascosto al fisco una somma pari alla somma del prodotto interno lordo degli Stati Uniti e di quello del Giappone. Lo rivela il nuovo rapporto di Tax justice network. Le cifre fornite dal documento sono scioccanti. «Le entrate perse a causa dei paradisi fiscali - rileva lo studio - sono talmente ampie da costituire una differenza significativa secondo tutti i nostri indici convenzionali di diseguaglianza. Poiché la maggior parte della ricchezza finanziaria mancante appartiene a una (piccola) élite, l'impatto è sconcertante».
James S. Henry, ex capo economista di McKinsey & Co., autore di The Blood Bankers e di articoli apparsi su The Nation e sul New York Times, ha scavato nei documenti della Bank for international settlements, del Fondo monetario internazionale (Fmi), della Banca mondiale, delle Nazioni unite, di banche centrali e di analisti del settore privato, riuscendo infine a tracciare il profilo dell'enorme riserva di denaro che fluttua nelle nebulose località definite offshore. E stiamo parlando soltanto del denaro, perché il rapporto non si occupa di appartamenti, yacht, opere d'arte e altre forme di ricchezza nascoste - nei paradisi fiscali e quindi non tassate - dai super-ricchi. Henry lo definisce il «buco nero» nell'economia mondiale e nota che «nonostante ci siamo sforzati di essere prudenti, i risultati sono scioccanti».
C'è una gran quantità d'informazioni in questo rapporto, quindi abbiamo scelto sei cose fondamentali da conoscere sul denaro che i più ricchi del mondo stanno nascondendo a tutti noi.

1. Incontra il top 0.01%
«Secondo i nostri calcoli, almeno 1/3 di tutta la ricchezza finanziaria privata e circa la metà di quella offshore è posseduta dalle 91.000 persone più ricche del mondo, appena lo 0.01% della popolazione mondiale» rileva il documento. Questi top 91.000 hanno circa 9.800 miliardi del totale stimato nel rapporto e meno di dieci milioni di persone possiedono l'intera pila di denaro.
Chi sono queste persone? È chiaro che sono le più ricche, ma cos'altro sappiamo di loro? Il rapporto parla di «speculatori cinesi trentenni, attivi nel settore immobiliare e magnati del software della Silicon Valley» e coloro la cui ricchezza deriva dal petrolio e dal traffico di droga. Non cita invece - ma avrebbe potuto - candidati alla presidenza degli Stati Uniti: Mitt Romney è stato attaccato per aver nascosto denaro in un conto svizzero e in investimenti nelle Isole Cayman.
Mentre i signori della droga hanno bisogno di nascondere i loro profitti illegali, tanti altri ultra-ricchi evitano di pagare le tasse costruendo intricati gruppi di aziende e altri investimenti soltanto per cancellare un po' di voci dal conto che devono pagare al loro paese.

2. Dove diavolo sono finiti i soldi?
Secondo Henry, il termine offshore non corrisponde più a un luogo fisico, nonostante una quantità di posti come Singapore e la Svizzera continuino a specializzarsi nel fornire ai ricchi di tutto il mondo «residenze fisiche sicure a bassa tassazione».
Ma oggi la ricchezza offshore è virtuale. Henry descrive «siti nominali, ultra-portatili, multi-giurisdizionali e spesso temporanei all'interno di reti di organizzazioni e accordi legali e semi-legali».
Una compagnia può essere ubicata all'interno di una giurisdizione, ma posseduta da un gruppo di aziende situato altrove e amministrata da un insieme di società in una località terza. «In definitiva il termine offshore si riferisce a un insieme di potenzialità» piuttosto che a un posto o a una serie di posti.

Un corpo di donna va pur sempre bene – Note attorno all’immaginario della crisi

di SIMONA DE SIMONI - uninomade -

Si dice che l’estate sia il tempo delle letture leggere e a questo diktat sembrano piegarsi un po’ tutti producendo un peggioramento generale del già disastroso panorama giornalistico e “gossipparo” all’italiana. A questo fenomeno, che abusa della leggerezza trasformandola in stupidità, si accosta un’impennata di sessismo su cui vale la pena riflettere. L’incipit materiale per queste note estive lo offre la copertina del numero corrente di L’espresso: una giovane donna bruna, immersa nell’acqua marina fino alla coscia, orientata verso l’orizzonte ammicca al lettore-spettatore mediante una torsione del busto di centoottanta gradi circa. La sequenza corporea, dunque, mostra: sedere, seno destro di profilo, volto incorniciato dai capelli lunghi e scuri. Sul gluteo destro, grazie al costume leggermente scostato, si scorge – come tatuata – la bandiera greca. Ai piedi dell’immagine, in grande, la scritta “Un tuffo nella crisi” seguita da una breve didascalia esplicativa che informa il “lettore” sul contenuto del giornale.
Perché un corpo di donna anche per parlare di crisi? Per rispondere alla domanda bisogna togliersi dalla testa che il problema sia irrilevante, ovvero che l’immagine sia letteralmente insignificante. Per provare a comprendere la portata semantica e politica della figura, inoltre, è necessario sgomberare il campo anche dalle obiezioni di taglio meramente moralistico che tendono a rigettare l’immagine in quanto semplicemente inopportuna e offensiva. In ogni caso, non è certo la prima volta che sul corpo di una donna transita un messaggio politico più o meno esplicito. E se, una galleria di metafore femminili potrebbe narrare con efficacia la storia italiana e non solo, anche la crisi sembra richiedere un corpo-metafora adeguato, eventualmente cangiante e camaleontico. La sua versione estiva assume così le sembianze della “bellezza mediterranea” al mare, richiamando la tradizionale sovrapposizione tra il corpo delle donne e la terra.
La strategia comunicativa non è nuova. Spot vacanzieri di vario genere vi fanno ricorso da tempo: crociere, escursioni, villaggi vacanze, etc… sono spesso accostati al volto e al corpo di una donna dai tratti meridionali/mediterranei con l’invito a scoprire i segreti e misteri della terra messa in vendita o meglio in affitto, data la temporaneità delle imprese coloniali estive correnti. Coloniale, infatti, è l’immaginario mobilitato e, se la donna è il segno con cui si offre la terra, il messaggio ammicca alla possibilità che il vettore muti di segno, che la terra – una volta raggiunta – offra il corpo di una donna in carne e ossa.

“Sons of a bitch, but OUR sons of a bitch”

mercoledì 15 agosto 2012

Manfred Max Neef - Ξυπόλυτα Οικονομικά.

Cuba 1962 – Siria/Iran 2012 – Operazione Northwoods (false flag per invadere Cuba)

Documenti USA declassificati, molto interessanti da leggere per vedere come funzionano certe cose: dopo cinquant'anni, sempre i soliti vecchi trucchi.

- fonte -

PREMESSA

Gli Stati Uniti hanno già sponsorizzato un colpo di stato in Siria nel 1949:
http://www.us-foreign-policy-perspective.org/index.php?id=323
e pianificato un altro colpo di stato ai danni del governo siriano alla fine degli anni Cinquanta:
http://versounmondonuovo.wordpress.com/2012/05/31/loccidente-e-la-destabilizzazione-della-siria-1957-2011-articolo-del-guardian/
Ora è la volta della Siria.
Il seguente piano fu respinto dal presidente J.F. Kennedy che, com’è noto, morì prematuramente l’anno successivo.

Cuba – Operazione Northwoods

Operazione Northwood – Pag. 1

Capi di Stato maggiore
Washington 25 D.C.
13 Marzo 1962
Memorandum per il segretario della difesa
Oggetto: Giustificazione per l’intervento militare degli Stati Uniti a Cuba (TS)
I Capi di Stato maggiore hanno preso in considerazione il Memorandum allegato per il capo delle Operazioni “Progetto Cuba” che risponde alla richiesta del suddetto ufficio per una breve, ma precisa descrizione dei pretesti che dovrebbero giustificare l’intervento militare Statunitense a Cuba.



ITALIANS! THE REVOLUTION IS NOW!

martedì 14 agosto 2012

Maria Rita D'Orsogna, ricercatrice italiana emigrata in California, (nella foto) ha scritto a Passera la lettera che tutti avremmo voluto scrivergli

martedì 14 agosto 2012

- ulisse -
Leggo dal mio facebook : << Maria Rita D'Orsogna, ricercatrice italiana emigrata in California, (nella foto a destra preda da http://tinyurl.com/bwfar73 bacheca di https://www.facebook.com/angelo.consoli.77 ) ha scritto a Passera la lettera che tutti avremmo voluto scrivergli. Diciamole grazie e prendiamoci cinque minuti per leggerla, mezz'ora per meditarla e due mesi di lotta infuocata al rientro per cacciare questa gentaglia a calci in culo e ripristinare la legalità europea violata !!! Detto questo a voi la lettera

Caro signor Passera,
stavo per andare a dormire quando ho letto dei suoi folli deliri per l'Italia petrolizzata.
Ci sarebbe veramente da ridere al suo modo malato di pensare, ai suoi progetti stile anni '60 per aggiustare l'Italia, alla sua visione piccola piccola per il futuro.
Invece qui sono pianti amari, perche' non si tratta di un gioco o di un esperimento o di una scommessa.
Qui si tratta della vita delle persone, e del futuro di una nazione, o dovrei dire del suo regresso.
Lei non e' stato eletto da nessuno e non puo' pensare di "risanare" l'Italia trivellando il bel paese in lungo ed in largo.
Lei parla di questo paese come se qui non ci vivesse nessuno: metanodotti dall'Algeria, corridoio Sud dell'Adriatico, 4 rigassificatori, raddoppio delle estrazioni di idrocarburi.
E la gente dove deve andare a vivere di grazia?Ci dica.
Dove e cosa vuole bucare?Ci dica.
I campi di riso di Carpignano Sesia? I sassi di Matera? I vigneti del Montepulciano d'Abruzzo? Le riserve marine di Pantelleria? I frutteti di Arborea? La laguna di Venezia? Il parco del delta del Po? Gli ospedali? I parchi? La Majella? Le zone terremotate dell'Emilia? Il lago di Bomba? La riviera del Salento? Otranto? Le Tremiti?
Ci dica.

Oppure dobbiamo aspettare un terremoto come in Emilia, o l'esplosione di tumori come all'Ilva per non farle fare certe cose, tentando la sorte e dopo che decine e decine di persone sono morte?
Vorrei tanto sapere dove vive lei.
Vorrei tanto che fosse lei ad avere mercurio in corpo, vorrei tanto che fosse lei a respirare idrogeno solforato dalla mattina alla sera, vorrei tanto che fosse lei ad avere perso la casa nel terremoto, vorrei tanto che fosse sua moglie ad avere partorito bambini deformi, vorrei tanto che fosse lei a dover emigrare perche' la sua regione - quella che ci dara' questo 20% della produzione nazionale - e' la piu' povera d'Italia.
Ma io lo so che dove vive lei tutto questo non c'e'. Dove vive lei ci sono giardini fioriti, piscine, ville eleganti soldi e chissa', amici banchieri, petrolieri e lobbisti di ogni genere.
Lo so che e' facile far cassa sull'ambiente. I delfini e i fenicotteri non votano. Il cancro verra' domani, non oggi. I petrolieri sbavano per bucare, hanno soldi e l'Italia e' corrotta. E' facile, lo so.
Ma qui non parliamo di soldi, tasse e dei tartassamenti iniqui di questo governo, parliamo della vita della gente. Non e' etico, non e' morale pensare di sistemare le cose avvelenando acqua, aria e pace mentale della gente, dopo averli lasciati in mutande perche' non si aveva il coraggio di attaccare il vero marciume dell'Italia.
E no, non e' possibile trivellare in rispetto dell'ambiente. Non e' successo mai. Da nessuna parte del mondo. Mai.
Ma non vede cosa succede a Taranto?
Che dopo 50 anni di industrializzazione selvaggia - all'italiana, senza protezione ambientale, senza controlli, senza multe, senza amore, senza l'idea di lasciare qualcosa di buono alla comunita' - la gente muore, i tumori sono alle stelle, la gente tira fuori piombo nelle urine?
E adesso noialtri dobbiamo pure pagare il ripristino ambientale?
E lei pensa che questo e' il futuro?
Dalla mia adorata California vorrei ridere, invece mi si aggrovigliano le budella.
Qui il limite trivelle e' di 160 km da riva, come ripetuto ad infinitum caro "giornalista" Luca Iezzi. Ed e' dal 1969 che non ce le mettiamo piu' le trivelle in mare perche' non e' questo il futuro. Qui il futuro si chiama high tech, biotech, nanotech, si chiamano Google, Facebook, Intel, Tesla, e una miriade di startup che tappezzano tutta la California.
Il futuro si chiama uno stato di 37 milioni di persone che produce il 20% della sua energia da fonti rinnovabili adesso, ogni giorno, e che gli incentivi non li taglia a beneficio delle lobby dei petrolieri.
Il futuro si chiamano programmi universitari per formare chi lavorera' nell'industria verde, si chiamano 220,000 posti di lavoro verde, si chiama programmi per rendere facile l'uso degli incentivi.
Ma non hanno figli questi? E Clini, che razza di ministro dell'ambiente e'?
E gli italiani cosa faranno?
Non lo so.
So solo che occorre protestare, senza fine, ed esigere, esigere, ma esigere veramente e non su facebook che chiunque seguira' questo scandaloso personaggio e tutta la cricca che pensa che l'Italia sia una landa desolata si renda conto che queste sono le nostre vite e che le nostre vite sono sacre.

TARANTO - Il Comitato Cittadini Lavoratori Liberi e Pensanti difende l'ultimo provvedimento emesso dal Gip Todisco

Critiche vengono rivolte alle organizzazioni sindacali: ecco il testo del comunicato

«L’ulteriore provvedimento della GIP Todisco che impedisce la facoltà d’uso alle aree da mettere a norma, bloccando la produzione, ed esautora Ferrante dal controllo del risanamento afferma due principi tanto ovvi quanto incontestabili: 1) per mettere a norma gli impianti inquinanti bisogna per forza bloccarne la produzione; 2)Ferrante in quanto responsabile del’azienda che ha provocato i danni non può essere colui che deve verificare l’andamento della messa a norma.
Tutto questo era già stato precisato dal Comitato Cittadini Lavoratori Liberi e Pensanti sia nei propri comunicati, sia nelle conferenze stampa che nelle varie interviste l’aveva detto con chiarezza. Riteniamo comunque, come abbiamo ribadito fin ora, che quegli impianti non saranno mai eco-compatibili. Sappiamo che modifiche sostanziali degli impianti, eventualmente applicate, non consentirebbero più all’azienda di vantare record di produzione fin ad oggi ottenuti. A nostro avviso la strategia aziendale è chiara: spremere le ultime gocce di un limone orami secco, per poi gettarlo via.
Veramente vergognosa, invece, l’ipocrisia della politica e di CGIL-CISL-UIL che mentivano sapendo di mentire nel momento in cui affermavano che la messa a norma poteva essere compiuta continuando a produrre a pieno regime, e che Ferrante avrebbe potuto essere colui che doveva controllare le operazioni. In realtà questa ipocrita posizione era come sempre finalizzata a salvaguardare i profitti miliardari di Riva dato il notorio asservimento di questi soggetti. Salvaguardia messa in atto,fra l’altro, utilizzando la solita falsa frase secondo cui Riva e i lavoratori sono nella stessa barca e l’interesse è comune. Falsissimo perché da un lato c’è Riva che in nome del profitto ha imposto un regime oppressivo in Ilva ed ha devastato l’ambiente e la salute distruggendo tante vite umane ed ogni altra forma di economia e dall’altro ci sono i lavoratori (soprattutto chi denunciava le malefatte) che hanno dovuto subire vessazioni ed emarginazione ed un continuo ricatto occupazionale.
Il Comitato in questo senso è stato chiarissimo:
· bisogna salvaguardare i livelli occupazionali e/o reddituali dei lavoratori e bisogna eliminare le fonti inquinanti, siano essi l’Ilva ma anche l’Eni, la Cementir, la Marina, l’Italcave, le discariche etc. che provocano devastazioni ambientali ed alla vita, causando morti e distruzione del ciclo alimentare;
· Le spese dovranno essere a carico soprattutto del Gruppo Riva e delle Stato coautori di queste distruzioni insieme alle altre aziende inquinanti;
· Gli investimenti dovranno esser almeno pari a quelli dell’area di Porto Marghera (5 miliardi) e dovranno essere finalizzati non solo alle bonifiche ma allo sviluppo di una economia ecosostenibile, rispettando le vocazioni naturali del territorio: mitilicoltura e pescicoltura, agricoltura ed allevamento, turismo e cultura, portualità non solo commerciale ma anche passeggeri;
· Se in questa direzione è da progettare una chiusura programmata dell’Ilva, ben venga. Perché tanto per essere chiari e non prendere in giro i lavoratori, l’Ilva sta andando comunque verso la chiusura per esclusiva colpa ed anche scelta padronale. Prova n’è il fatto che gli impianti sono obsoleti e per metterli a norma servono miliardi, e nel corso degli anni mai si è provveduto realmente all’adeguamento alle normative ambientali ed antinfortunistiche: veramente si può pensare che chi non ha speso pochi spiccioli dal ‘95 ad oggi per adeguarsi alle leggi, oggi voglia spendere fior di quattrini? Va evitato quindi che da un giorno all’altro (come è capitato troppe volte) il Gruppo Riva abbandoni di punto in bianco la fabbrica e lasci a spese della collettività sia i disastri da lui combinati che il carico dei lavoratori e delle loro famiglie.
Infine ma non per ultimo. Oggi politici e sindacalisti professionisti attaccano nuovamente un giudice che sta semplicemente applicando le leggi. Anzi, per essere precisi, lo stesso giudice le sta applicando anche in modo soft, se pensiamo che Guariniello a Torino ha accusato di omicidio volontario i dirigenti della Thyssen perché “coscientemente hanno messo a rischio la vita dei lavoratori non ponendo in essere le prevenzioni adeguate e la messa a norma”. Ma per le stesse cause non sono morti sia in Ilva che nel territorio? Ed oggi a quei politici ed a quei sindacalisti chiediamo da cittadini e da lavoratori: dove eravate quando bisognava lottare per fare in modo che l’Ilva si mettesse a norma? E perché non avete supportato e difeso quelle voci che urlavano denunciando le malefatte ed anzi avete contribuito a tacerle?
Presa visione della nuova ordinanza della magistratura che condividiamo in pieno, riteniamo inutile e illegittimo il Tavolo Tecnico di Bari e qualsiasi altra forma di esclusione della città! I lavoratori e i cittadini in primis devono essere protagonisti di queste decisioni.
Dunque sarebbe una scelta appropriata che la classe politica tutta si dimetta in massa perché non ci ha rappresentato. Per questo i cittadini ed i lavoratori hanno condiviso l’esigenza di autorappresentarsi.
Vogliamo essere protagonisti del nostro destino, lo abbiamo deciso il 2 agosto con il Comitato.
TUTTI INSIEME PER L’ALTERNATIVA: OPERAI-CITTADINI-MITILICOLTORI-ALLEVATORI-DISOCCUPATI-PROFESSIONISTI-STUDENTI».
Comitato Cittadini Lavoratori Liberi e Pensanti.

Modello tedesco, discutiamone

Fonte: il Manifesto | Autore: Enrico Grazzini
In Italia nessuna forza politica o sindacale ha in agenda il sistema di codeterminazione nelle aziende. E sui beni comuni si potrebbe riprendere il modello Olstrom, affidandoli alle comunità locali

Secondo voi potrebbe accadere in Germania una tragedia come quella dell'Ilva, in cui l'industria pubblica prima e quella privata poi inquinano per decenni un'intera città imponendo ai lavoratori di scegliere tra lavoro e salute fino al rischio di chiusura totale? Secondo voi potrebbe accadere in Germania che la principale azienda automobilistica chiuda gran parte delle sue attività produttive, butti fuori il sindacato che non ci sta, e sposti la sua sede e il centro di ricerca all'estero di fronte a un governo del tutto inerte? La risposta è abbastanza certa: no! E la ragione è chiara. Valga un esempio per tutti: Volkswagen nel suo consiglio di sorveglianza conta non solo i consiglieri dello stato della Bassa Sassonia e degli azionisti privati ma anche metà dei membri eletti dai lavoratori. Così il gigante tedesco, pur essendo quotato in borsa come la Fiat, non può delocalizzare senza l'intesa con i lavoratori, e ha potuto superare le fasi critiche solo con il loro consenso. Il risultato è che Volkswagen domina il mercato mondiale dell'auto, apre fabbriche all'estero senza licenziare in Germania, e che i salari dei lavoratori crescono. È chiaro che la democrazia industriale permette ai lavoratori tedeschi di difendere meglio l'occupazione, il reddito e il potere sindacale; e consente anche di sviluppare produzioni ecologicamente sostenibili (la Germania ha rinunciato al nucleare anche se il gigante Siemens è leader del settore). Ma in Italia purtroppo la sinistra politica, sindacale e intellettuale, che pure spesso mostra di ammirare il "modello tedesco"" ignora la Mitbestimmung (che significa co-determinazione aziendale e non partecipazione, parola troppo ambigua) e non ha neppure in agenda le questioni strategiche della democrazia industriale. Eppure la Mitbestimmung è il vero fattore decisivo (anche se volutamente sottaciuto) che ha reso la Germania leader manifatturiera - e quindi finanziaria e politica - nel mondo.
In pratica, da 60 anni (dal 1951) in Germania, nonostante la dura opposizione della confindustria tedesca, tutti i lavoratori delle medie e grandi aziende, iscritti e non iscritti al sindacato, hanno per legge un doppio diritto di voto: da una parte eleggono i rappresentanti sindacali nel consiglio di fabbrica; d'altro lato nominano i loro rappresentanti nel consiglio di sorveglianza delle aziende, con potere co-decisionale per quanto riguarda le strategie (acquisizioni, cessioni, fusioni, delocalizzazioni, outsourcing, ecc), l'approvazione dei bilanci e la nomina del consiglio di gestione. E non c'è complicità: i lavoratori non partecipano al capitale e agli utili delle aziende. Ovviamente il modello di co-decisione presenta molti rischi, soprattutto di corporativismo e di nazionalismo. Non è la bacchetta magica, non è certamente il soviet e il socialismo. Tuttavia a mio parere rappresenta un compromesso avanzato da considerare positivamente perché aumenta il potere dei lavoratori e dei sindacati di fronte ai capricci del capitale. I vantaggi della democrazia industriale superano i rischi. Crediamo che anche in Italia, soprattutto oggi, quando milioni di cittadini soffrono per le politiche governative di austerità e recessione, e rischiano la perdita del lavoro e del reddito, i lavoratori dovrebbero potere co-decidere sul loro presente e sul loro futuro. Questa battaglia dovrebbe essere sostenuta da tutti quelli che hanno a cuore la dignità del lavoro e delle persone. Del resto la democrazia economica è già prevista dall'articolo 46 della Costituzione secondo cui «la Repubblica riconosce il diritto dei lavoratori a collaborare alla gestione delle aziende».
La trasparenza e la partecipazione sono indispensabili anche contro la corruzione e la criminalità economica, così diffuse in Italia. Ma la necessità della democrazia economica ha radici ancora più profonde: attualmente la proprietà delle aziende di grande e media dimensione è quasi sempre in mano a società finanziarie - banche d'affari, fondi pensione, hedge fund, fondi d'investimento, fondi sovrani, ecc. - che hanno obiettivi di valorizzazione finanziaria di breve termine. La speculazione finanziaria che sta rovinando le imprese e il lavoro è però strettamente collegata al modello autoritario anglosassone di corporate governance che premia solo gli azionisti e che domina anche in Italia. Al contrario il modello tedesco di governo delle imprese con la partecipazione dei lavoratori nel board garantisce più facilmente continuità produttiva, occupazione, sviluppo e innovazione. Non a caso le analisi dello European trade union institute, il centro studi europeo dei sindacati, indicano che nell'Unione europea 12 paesi su 27, soprattutto nell'area renana e scandinava (Svezia, Norvegia, Danimarca e Finlandia), hanno introdotto forme avanzate di co-determinazione: e questi paesi sono anche quelli in cui si registra la maggior occupazione, più reddito del lavoro, rapida innovazione, migliore sostenibilità ambientale e maggiore potere sindacale. Non proponiamo quindi un'utopia illusoria, ma semplicemente l'estensione dei diritti che i lavoratori hanno già nel nord Europa anche in Italia.


TRAGIC ALTERNATIVE AT THE ILVA STEEL FACTORY: WORK OR POLLUTION

lunedì 13 agosto 2012

Italiani nell'inquietudine, serve un "Salvaitaliani". Nei primi sei mesi del 2012 più di trenta casi di suicidi

-controlacrisi -
Salvaitalia? Oggi arriva con forza la necessità di "salvare gli italiani". A dichihararlo è Giuseppe Luigi Palma, presidente del Consiglio nazionale dell'Ordine degli psicologi.
"L'allarme - sostiene - viene rilanciato da più parti come da associazioni del volontariato, degli artigiani, degli imprenditori. L'attenzione - spiega - torna alta sul fenomeno dei cosiddetti suicidi economici, una lunga lista di vittime della crisiche si abbatte sulla vita reale. Un fenomeno, questo, tristemente tipico dei periodi di difficoltà economica e che secondo dati recenti è cresciuto negli ultimi due anni di quasi il 25%: solo nei primi sei mesi del 2012 si sono già registrati più di trenta casi di suicidi".
E se questi numeri dovessero crescere ancora? "Se questi numeri - continua - rappresentano lo spaccato estremo e definitivo di un disagio che una persona non è in grado di sopportare, altre e altrettanto profonde sono le inquietudini che vediamo serpeggiare nell'animo e nei pensieri delle persone: si insinua il dubbio, la paura, l'ombra che porta a temere che qualcosa di grave e per certi versi irreparabile ed irreversibile possa capitare a ciascuno di noi: la crisi può colpire anche me". "I segnali - dichiara lo psicologo - ci sono: l'eliminazione progressiva del superfluo quotidiano, ma anche la constatazione che i risparmi si assottigliano, che il valore della propria casa, magari di poco, si riduce''. Ma non è finita. "I negozi del quartiere che scompaiono, il posto di lavoro che potrebbe diventare pericolante - aggiunge Palma - La tentazione, specialmente dei cittadini di ceto medio (alto e basso), è quella di girare la testa dall'altra parte, ma il tarlo resta: non può che essere così, sentendo ogni giorno di rischio Grecia, rischio Spagna, e di euro appeso a un filo. Il tormento - sostiene - è quotidiano: spread a cinquecento, contagio imminente, baratro senza fondo, fine delle certezze individuali cosi' come di quelle collettive". "Dal nostro osservatorio - dice ancora il presidente degli psicologi italiani - avvertiamo una inquietudine diffusa, sottile, pericolosa: quella di che non sta (ancora) malissimo, ma che sa (o teme) di essere sulla soglia del baratro, vero o temuto: aziende in ristrettezze improvvise, mobilità, prepensionamenti: parole che per molti non sono più una lontana ipotesi per conoscenti sfortunati da consolare". "Forse - osserva - più grave la situazione della vasta platea dei quasi cinque milioni tra professionisti e lavoratori autonomi intellettuali stremati dal precipitare della crisi su una situazione già difficile: pagamenti fermi, investimenti a zero, burocrazia ora piu' che mai insopportabile". "L'affanno - spiega - sempre piu' spesso sembra prendere il sopravvento: accorparsi, dividere le spese, non mollare. L'agiata precarietà intellettuale degli anni passati che sfuma tra rimpianti e rimorsi". "La gente - continua Giuseppe Luigi Palma - si chiude in casa, uomini e donne; molto di piu' uomini che vivono il loro default come un'onta e una vergogna - di seconda e terza eta', sono terrorizzati per figli e nipoti: serpeggia, rabbia, desolazione, ansia repressa. I sensi sono tutti concentrati sull'allerta che puo' evitare la caduta, il tonfo, il film dell'orrore del restare al verde e vedere il segno meno del proprio conto in rosso". "Non sarà un bel settembre, quello che verrà - conclude - sembra quasi che il cuore e l'animo dei cittadini non riesca a (ri)sollevarsi. Monti pensando allo spread e al debito ha varato il SalvaItalia, ora servirebbe davvero un Salva Italiani".

Lassu' al Sud - Pino Aprile

 

"Gli ultimi dati dell’Unione delle Camere di Commercio mostrano che tra le nuove aziende la più alta percentuale è meridionale, il 31%. Non solo: le nuove aziende create da giovani con meno di 35 anni sono in grandissima parte meridionali. Se si fa una classifica delle province in cui nasce il maggior numero di aziende a opera di giovani, i primi posti vedono province meridionali. Al primo posto c’è Enna. Per aziende che nascono a opera di donne la classifica vede ai primi posti solo città meridionali. È vero che questo succede perché non avendo alternative, non avendo possibilità di trovare lavoro, i giovani, le donne del Sud, se lo creano, ma è vero anche che la capacità dei giovani meridionali di creare economia in maniera innovativa è notevole.". Pino Aprile

Il Passaparola di Pino Aprile, giornalista e scrittore

Il Sud parte svantaggiato 
Buongiorno a tutti, sono Pino Aprile, sono un giornalista e uno scrittore, mi dedico da alcuni anni esclusivamente a temi che riguardano il Mezzogiorno d’Italia, e la domanda che tocca ognuno di noi perché riguarda tutti è: “Dove va a finire l’Italia con il Sud in queste condizioni?”. Già l’Italia è messa male, il Sud vale poco più della metà del PIL del Nord e quindi è messo, lo sappiamo da sempre, molto peggio del resto del Paese e la sua economia è molto più difficoltosa, non viene messa nelle condizioni di potersi sviluppare. Provo a fare un esempio. Reggio Calabria ha, con i bronzi di Riace, uno dei richiami turistici più importanti che ci siano e spesso i cittadini di Reggio Calabria vengono accusati di non saper sfruttare questa fonte di lavoro, di guadagno. Si dimentica che raggiungere Reggio Calabria è un’impresa perché sono stati tagliati i treni per raggiungere Reggio Calabria, l’alta velocità se la sognano, i treni diretti sono stati aboliti, decine di voli, vado a memoria, mi pare che 52 voli siano stati soppressi, come ci vai a Reggio Calabria? L’alternativa è la Salerno - Reggio Calabria che va riconosciuto è in fase di ristrutturazione, ma perché ce lo ha imposto l’Europa perché non è un’autostrada e l’Europa ha preteso che l’Italia adeguasse la Salerno - Reggio Calabria ai criteri delle autostrade e ora quasi 300 chilometri dei 440 sono stati messi in condizioni di decente percorribilità. Come fai a sfruttare una risorsa turistica se non puoi risolvere la prima questione che ti pone il turista: "Come arrivo lì?”. Moltiplicate questo per ogni impresa si possa fare al Sud e si capisce come e perché parta svantaggiato, molto squilibrato in questa corsa, è come fare 100 metri con una palla al piede.
Ci sono però dei segnali molto positivi. Gli ultimi dati dell’Unione delle Camere di commercio, mostrano che tra le nuove aziende la più alta percentuale di nuove aziende è meridionale, il 31%. Non solo, ma le nuove aziende create da giovani con meno di 35 anni sono in grandissima parte meridionali. Se si fa una classifica delle province in cui nasce il maggior numero di aziende a opera di giovani i primi posti vedono province meridionali. Al primo posto c’è Enna. Per aziende che nascono a opera di donne la classifica vede ai primi posti solo città meridionali. È vero che questo può succedere e succede perché non avendo alternative, non avendo possibilità di trovare lavoro, i giovani, le donne del Sud se lo creano, ma è vero anche che la capacità dei giovani meridionali di creare economia in maniera innovativa è notevole. Vi faccio un esempio. Grazie ai concorsi, alle possibilità messe su dalla Regione Puglia per premiare idee innovative, spin-off per start up, idee vincenti che possano far nascere nuove aziende, la Puglia in soli due anni è diventata la prima d’Italia tranne il Friuli e nel 2011 l’azienda più innovativa l’Italia è pugliese.Ci sono esempi clamorosi. Quello più citato è Blackshape. Due giovani di Monopoli in provincia di Bari, dopo avere lavorato in giro per il mondo, dal Sud America alla Cina, si incontrano a Parigi e entrambi con la nostalgia del proprio paese, tornano. Non hanno soldi, le loro famiglie li hanno aiutati come potevano, ma hanno idee e coraggio. Mettono in piedi un progetto per costruire il più leggero velivolo privato del mondo, vincono un concorso della Regione Puglia con cui portano a casa i soldi per il progetto, che erano circa 24/25 mila Euro. Vincono anche un concorso europeo che comporta soldi notevoli, ma non bastano per mettere su l’azienda. Però il loro progetto è così buono che un imprenditore locale mette il resto. Questa fabbrica ora c’è, produce due velivoli al mese, sta a Monopoli e stanno cercando di ampliarla perché non reggono alla richiesta. Questo velivolo si chiama Blackshape e è stato definito dalla rivista internazionale "Voler" la Ferrari dei cieli.
Esempi così se ne possono fare tantissimi, quindi il Sud non è solo la disperazione di 700 mila giovani che se ne sono andati in 10 anni e che continuano a andarsene, non è solo la disperazione di un Paese. Uno Stato che ha abbandonato letteralmente una parte del Paese e della sua popolazione.

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