Ο παγκοσμοποιημένος καπιταλισμός βλάπτει σοβαρά την υγεία σας.
Il capitalismo globalizzato nuoce gravemente alla salute....
.... e puo' indurre, nei soggetti piu' deboli, alterazioni della vista e dell'udito, con tendenza all'apatia e la graduale perdita di coscienza ...

(di classe) :-))

Francobolllo

Francobollo.
Sarà un caso, ma adesso che si respira nuovamente aria fetida di destra smoderata e becera la polizia torna a picchiare la gente onesta.


Europa, SVEGLIA !!

Europa, SVEGLIA !!

sabato 21 luglio 2012

Sapete quanto guadagna il vostro capo?

Le diseguaglianze che crescono, e i cambiamenti nella loro percezione. Un'anticipazione dal libro "Le ricchezze oscene", di Phillippe Steiner (Ets, 2012)

Con la crisi finanziaria l’ordine economico si trova a doversi confrontare con una situazione che rende desuete tutte le nostre convinzioni sulla scala delle disuguaglianze, nonché sul mercato che dovrebbe fornire una misura del merito alla base di queste stesse disuguaglianze. La legittimità di quest’ordine appare messa in discussione, e non solo dalla base della gerarchia sociale.
Per comprendere l’ampiezza dei cambiamenti provocati dall’attuale crisi bisogna tornare indietro di una decina d’anni. Un’indagine internazionale, condotta nel 1999, fornisce risultati interessanti riguardo alla percezione delle disuguaglianze di reddito prima della crisi (1). Quattro dati saltano agli occhi: 1) La forma della distribuzione dei redditi è mal nota: la maggior parte delle persone se la rappresenta come un triangolo (una larga base di poveri e pochi ricchi) o come un rombo (pochi poveri, pochi ricchi e una classe media molto ampia), quando essa ha piuttosto la forma di un rombo troncato alla base. 2) Le disuguaglianze sono considerate troppo forti in tutti i paesi: si va dal 66% delle persone intervistate negli Stati Uniti all’89% in Spagna, passando per l’82% e l’87% in Gran Bretagna e in Francia. 3) La distribuzione dei redditi a forma di rombo è quella a cui gli individui aspirano: in questo modo un ampio ceto medio riposerebbe su uno stretto vertice di poveri e su questa base si innalzerebbero progressivamente i ceti più ricchi, fino a disegnare uno stretto vertice di persone ricchissime. 4) Alla fine, se gli stipendi e la loro gerarchia sono abbastanza noti, le remunerazioni più alte non lo sono affatto.
Se all’epoca si chiedeva alle persone di stabilire il rapporto tra quello che guadagnava il capo di una grande impresa e quello che guadagnava un operaio non specializzato, si ottenevano le risposte riportate nella prima riga della tabella qui sotto.
Rapporto tra il reddito del capo di una grande impresa e il reddito di un operaio non specializzato secondo l’indagine ISSP del 1999
Svezia Spagna Germania Stati
Uniti
Gran
Bretagna
Francia
Indice
stimato
3,8 5 8 12,5 12,5 16
Indice
auspicato
2,1 2,8 5 45 5,6 6,3
Gli ordini di grandezza erano già allora abbondantemente sballati, dal momento che nel 2002 il rapporto tra lo stipendio di un operario non specializzato francese e il reddito medio dei capi del gruppo CAC 40 erano di 1 a 177; nello stesso periodo, negli Stati Uniti, era dell’ordine di 1 a 300. In realtà, lo scarto stimato dagli intervistati corrispondeva piuttosto al rapporto tra il reddito dell’operaio non specializzato e i redditi delle classi medie superiori, come se gli intervistati non riuscissero a vedere al di sopra di quelli.
La seconda riga della tabella mostra invece il rapporto che le persone intervistate consideravano auspicabile per ciò che riguarda la disuguaglianza di retribuzione tra l’amministratore delegato e l’operaio non specializzato. Ne risultava implicitamente la misura dell’uguaglianza nei diversi paesi. Fatta eccezione per la Germania, si può osservare come la riduzione auspicata della disuguaglianza fosse tanto più alta quanto più elevata era la disuguaglianza percepita: in Svezia e in Spagna sarebbe stato sufficiente dividere la disparità di reddito per un fattore di 1,8, mentre in Francia o negli Stati Uniti sarebbe stato necessario dividerlo per 2,5.
Cos’è successo dopo? Lo studio realizzato nel 2010 mostra un’evoluzione nelle risposte dei francesi: lo scarto stimato è stato moltiplicato per 4 (passando dall’1 a 16 all’1 a 63) e lo scarto auspicato è stato moltiplicato per poco meno di 3. L’esplosione delle disuguaglianze non è quindi sfuggita ai francesi. Questo significa forse che nel tempo l’opinione pubblica si adatta e finisce per accettare un livello sempre crescente di disuguaglianza? Quest’interpretazione, piuttosto comoda, non è tuttavia soddisfacente per una ragione essenziale: sia prima sia dopo la prova della crisi finanziaria, le risposte lasciano trasparire una forte sottovalutazione delle retribuzioni oscene. Certo, dal 1999 al 2010, l’errore di valutazione è diminuito della metà, ma è restato tuttavia considerevole, soprattutto se si pensa quanto siano sottostimati i picchi massimi di queste retribuzioni.
L’inchiesta del 2010 mette così in luce una differenza nella capacità di valutazione dei redditi. Per i redditi ordinari, le risposte fornite dai francesi intervistati sono molto vicine alle statistiche dell’Insee (2): l’errore medio va dal 10 al 14% per i redditi dell’operaio non specializzato, dell’impiegato e del medico, ed è pari a zero per il reddito di un insegnante, valutato in maniera pressoché esatta. Le risposte diventano invece meno precise quando si tratta dei ministri, il cui reddito è sopravvalutato del 23% – anche se c’è da dire che, in questi casi, il reddito monetario non è che una parte del reddito reale, che dipende anche dalle agevolazioni extra (alloggio, spese di viaggio, di rappresentanza, vitto, ecc.). Ma è con i redditi più elevati che le persone intervistate perdono la bussola: stimando il reddito dei capi delle grandi imprese intorno a 70.000 euro mensili, la sottovalutazione oscilla tra il 500 e il 300%, a seconda che si tenga conto o meno di stock options e bonus differiti! Lo stesso fenomeno si riproduce in scala minore per quanto riguarda il reddito delle «stelle del calcio»: con 165.000 euro al mese, il loro reddito è sottostimato del 190% (3).
Questa forte differenza nella capacità di valutazione dei redditi ha innanzitutto un significato sociale: c’è un baratro tra i redditi delle persone che si trovano alla sommità della gerarchia e quelli di tutti gli altri. Mentre l’ammontare dei redditi percepiti nel mondo economico ordinario è ben noto, i redditi che prevalgono al vertice della gerarchia non lo sono affatto. La sottovalutazione mostra come l’ammontare di questi redditi sfugga completamente al mondo economico ordinario, benché le persone intervistate abbiano ben compreso che le disuguaglianze si sono accresciute.

(1) Considero solo i dati relativi all’Europa (Svezia, Gran Bretagna, Francia, Spagna e Germania) e agli Stati Uniti. Per una visione più generale dell’indagine, cfr. il libro di Michel Forsé, Maxime Parodi, Une théorie empirique de la justice sociale, Hermann, Paris 2010, capitolo 6.
(2) [L’Insee (Institut national de la statistique et des études économiques) è l’ente incaricato della produzione e dell’analisi delle statistiche in Francia].
(3) Nel 2009, il reddito medio dei dieci calciatori francesi più pagati del campionato si aggirava intorno ai 3,8 milioni all’anno.
* Il testo qui pubblicato è uno stralcio tratto dal primo capitolo del libro "Le ricchezze oscene", di P. Steiner, Ets 2012 (10 euro).

Moody's, l'oracolo e la politica

Verdetti volubili e imperscrutabili, come le divinità pagane. Però stavolta c'è una verità, tra le ragioni del declassamento: perché chi fa politica non dice chiaramente cosa farà dopo le elezioni?

Ma come si permettono I Mercati di rivoltarsi contro l’Italia, con tutto quello che stiamo facendo per loro? A ogni downgrade delle agenzie di rating, e a ogni crollo di borsa o aumento dello spread, gli italiani offesi dimenticano forse che tra le caratteristiche proprie delle divinità pagane, come I Mercati, ci sono la volubilità e l’imperscrutabilità.
Oggi, il doppio declassamento inferto da Moody’s ai titoli pubblici italiani si basa sulle stesse due considerazioni che mossero cinque mesi fa Standard & Poor’s: 1) l’economia italiana (e europea) va male, e con essa si riducono le capacità della repubblica Italiana di ripagare il proprio debito; 2) lo scenario politico italiano presenta troppe incognite, e ogni volta che il governo ‘starnutisce’ o sembra indebolito, gli investitori mettono mano al mouse.
Sul primo punto la questione è semplice e ormai abbastanza chiara ai più: fintanto che a livello europeo proseguiremo – addirittura anche nei paesi in surplus della bilancia dei pagamenti – con la follia dell’austerità, l’economia peggiorerà, e con essa la capacità dello Stato di ripagare il debito negli anni a venire. È noto infatti che il debito si misura in rapporto al Pil (e quindi cresce se il Pil si riduce) e che le entrate fiscali dipendono dall’andamento dei redditi di famiglie e imprese.1
Ma d’altro lato, l’austerità è la maniera migliore per garantire la solvibilità dello stato nell’immediato. Un alto surplus primario, cioè entrate pubbliche molto superiori alle spese pubbliche – il massimo dell’austerità – è la strada più sicura per garantire che piano piano si riesca a ripagare gli interessi e, auspicabilmente, a rimborsare un po’ di titoli in scadenza. È la politica che più tutela i creditori nell’immediato, e per questo è tanto invocata.
Dunque I Mercati vogliono la botte piena (l’austerità) e la moglie ubriaca (l’economia che cresce)? Certo. Chi ha mai detto che I Mercati fossero composti di una sola persona, o rappresentativi di un solo interesse? Questo è solo uno, e neanche il principale, degli argomenti in favore dell’ipotesi di piantarla con il tentativo di vaticinare le volontà dei mercati, e soprattutto di applicarle poi nelle politiche economiche.
Inoltre, i più accaniti fan dell’austerità possono sempre invocare l’argomento che “non stiamo facendo abbastanza” e che, se il paziente sta morendo, la cura non è sbagliata ma insufficiente.
Ma la certificazione da parte di Moody’s del fatto che l’economia peggiora, e quindi forse l’austerità non è l’idea migliore, non è la parte che più ha infastidito molti commentatori italiani. È il secondo punto, la valutazione sullo scenario politico, a essere percepito come un’indebita interferenza negli affari nostri.
Mi permetto di notare che su questo aspetto in Italia si è davvero guardato al dito e non alla luna.
Secondo l’economia mainstream, l’assetto democratico di un paese ne incentiva la crescita economica. Due le ragioni più spesso apportate da quella che, senza autoironia, si definisce Nuova Economia Istituzionale (corsivo mio):
  1. la democrazia garantisce un migliore sistema di pesi e contrappesi, e controlli sui governanti, e quindi riduce gli sprechi e le inefficienze;
  2. la libertà politica e quella economica si integrano a vicenda, e quindi la democrazia favorisce la creazione d’impresa, l’innovazione, la concorrenza.
L’impetuosa crescita di diversi paesi emergenti e di alcuni paesi in via di sviluppo, caratterizzati da “democrazie autoritarie”, è sembrata mettere in discussione questa tesi. Con democrazia autoritaria si intende un regime politico formalmente democratico (o almeno parzialmente tale) ma di fatto dominato da un’élite di partito (come in Cina), di clan (come in Russia), o personale (come in Venezuela). Questo dominio di fatto si fonda sul controllo monopolistico di alcuni centri di potere necessari per governare un paese, come la stampa, le industrie, le banche, i corpi intermedi.
Ora, a parte che anche questi paesi stanno oggi rallentando la loro corsa, frenati dalla recessione strisciante nei paesi sviluppati, in molti paesi autoritari la crescita sembra per lo più fondata sullo sfruttamento di risorse naturali o sulla compressione dei diritti civili e sociali, e quindi non sembrerebbe sostenibile nel lungo periodo. Dunque, rimarrebbe salva l’ipotesi che la democrazia fa bene all’economia.
Per questo tendenzialmente (sebbene non sempre) i paesi democratici godono di rating più alti.
Oggi è difficile collocare l’Italia in questo quadro. Tutti o quasi i centri di potere necessari per governare, cui ho accennato sopra, hanno puntato su un unico “cavallo”. Nessuno può oggi porsi come una credibile alternativa al governo attuale, perché nessuno può vantare il supporto di una parte minimamente consistente di quelli che vengono volgarmente definiti ‘i poteri forti’. Questa è la ragione per cui I Mercati tanto temono una caduta del governo Monti: non perché nessuno al di fuori dell’attuale presidente del consiglio saprebbe governare la pur difficile congiuntura attuale, ma perché non esistono alternative credibili e possibili.
Perché ci sia democrazia, sostanziale e non solo formale, è necessario che i cittadini abbiano una vera scelta tra proposte alternative, tutte credibili e possibili. L’attuale situazione di monopolio, invece, si dimostra non solo una limitazione del dibattito, ma anche un rischio per chi (come gli investitori) guarda qualche giorno oltre la mera sopravvivenza dell’oggi e, non vedendo alternative organizzate e credibili, trema di fronte a ipotesi di modifica dello status quo.
Paradossalmente, mantenendo l’incertezza sulle alleanze con cui si presenteranno alle prossime elezioni, e più in generale sugli obiettivi e le politiche auspicate nel medio periodo, sono proprio le forze che “responsabilmente” sostengono il governo Monti ad essere destabilizzanti per l’Italia e il suo rating.

1 Si veda ad esempio il recente contributo di Alessandro Roncaglia su www.monetaecredito.info

"Anche i ricchi piangono": in Germania si apre il confronto sulla tassa patrimoniale

Fonte: wall street italia
           In Europa sono in molti a concordare sul fatto che i due problemi principali del continente siano gli enormi livelli di debito e l'ineguaglianza tra i ricchi e il resto della popolazione. Finalmente le autorita' politiche si sono mosse per cercare di mettere in atto un piano in grado di risolvere entrambe le questione.

L'idea, abbozzata per la prima volta da un'organizzazione di economisti tedeschi, e' semplice: imporre una tassa del 10% sul patrimonio degli europei piu' facoltosi, costringendoli a prestare soldi ai loro governi.

Il piano esorta a imporre una tassa una tantum del 10% sugli asset totali in mano ai cittadini europei che detengono piu' di 309 mila dollari in portafoglio (per le coppie la soglia sale a $611.000). All'imposta verrebbe accompagnato un programma di 'prestiti forzati', secondo il quale i piu' benestanti verrebbero spinti a prestare denaro ai loro governi. Soldi che verranno restituiti nel tempo.

Ad avere avanzato ufficialmente la proposta e' Stefan Bach del prestigioso istituto di ricerca economica tedesco DIW, con sede a Berlino.

"In molti paesi i livelli di debito sovrano sono aumentati in maniera considerevole e allo stesso tempo abbiamo immense quantita' di asset privati in mano a pochi. Se prese tutte insieme superano di molto i debiti nazionali complessivi di tutti gli stati membri dell'Eurozona presi insieme".

In poche parole, il patrimonio dei ricconi e' sufficiente a coprire i buchi di bilancio di tutti i governi in difficolta' dell'area a 17.

Venti anni di decrescita chiamata “fiscal compact”

Posted by keynesblog
Ieri la Camera dei Deputati ha approvato in via definitiva il cosiddetto “fiscal compact” e il Meccanismo Europeo di Stabilità (MES), l’architrave dell’austerità. Il paese è obbligato quindi, nei prossimi vent’anni, a portare il suo debito pubblico dal 126% (previsioni FMI per il 2012) al 60% del PIL. Si tratta di circa 45 miliardi di risparmi l’anno, miliardo più, miliardo meno, a seconda dell’andamento del ciclo economico. E, si noti, poiché il PIL durante una recessione scende, il rapporto debito/PIL sale. Pertanto il nuovo accordo si configura come una manovra suicida che aggraverà gli effetti di una fase discendente del ciclo.

Per avere una dimensione di paragone, la spending review di cui tanto si parla incide per appena 29 miliardi in tre anni, meno di 10 miliardi l’anno. O, in altri termini, si può dire che per rispettare il fiscal compact lo Stato toglierà agli italiani circa il 3% della ricchezza generata ogni anno.
Con quali effetti? L’esperienza degli ultimi venti anni è significativa. Come abbiamo fatto vedere ieri, nonostante l’avanzo primario sia stato costantemente positivo fino al 2009, il debito si è ridotto di 20 punti in quattordici anni, dal picco del 1995 fino 2008. Questo continuo sottrarre risorse all’economia, unito agli effetti negativi dell’ingresso nell’euro (sia pur bilanciato da minori spese per il debito), non è stato indolore: la crescita negli anni 2000, quelli in cui peraltro l’avanzo primario è stato minore (mediamente il 2% all’anno) ha portato ad una stagnazione, con tassi di crescita reali decisamente bassi, mediamente l’1% fino alla crisi.
E’ facile immaginare quindi che un consolidamento fiscale che cercasse di raggiungere in venti anni un abbattimento del 66% di debito pubblico sul Pil sarebbe ancor più depressivo. E meno dell’1% cosa c’è? Ovviamente zero. O ancor meno, con il risultato che però, negli anni in cui la crescita dovesse essere negativa, il rapporto aumenterebbe e, come Sisifo, torneremmo a riscalare la montagna. Come del resto stiamo facendo proprio ora. Il tutto nell’ipotesi che i tassi di interesse scendano ai livelli degli anni 2000, cosa che probabilmente non avverrà mai, vista la crisi dei debiti sovrani.
Ma la diminuzione del debito pubblico sulla base di una crescente sottrazione di risorse può avere un effetto ancor più traumatico. Quando il debito pubblico scende perché diminuisce la spesa pubblica, infatti, è molto probabile che quello privato salga. Il motivo è che l’austerità costringe imprese e famiglie ad indebitarsi, spesso anche solo per mantenersi. E cosa succede quando il debito privato cresce? La Spagna e l’Irlanda ci dicono molto sugli effetti perversi di questa politica e di come in un paio d’anni si può far schizzare nuovamente su il debito pubblico anche di 70 punti.
Ieri il parlamento ha messo un’ipoteca sul futuro del paese, che il paese potrebbe pagare molto cara.

venerdì 20 luglio 2012

Una «Syriza italiana»?

di Leonardo Mazzei - sinistrainrete -

Può formarsi in Italia una coalizione alla greca?Potrà nascere in Italia qualcosa che assomigli (pur senza mitizzarla, che anzi l'abbiamo a più riprese criticata) alla coalizione greca di Syriza? E' una domanda che si vanno ponendo in molti. E' una domanda importante oltre che legittima. Cerchiamo perciò di dare qualche risposta.

1. Meriti e limiti di Syriza
Il merito principale di Syriza è stato quello di aver saputo incanalare e raccogliere, almeno elettoralmente, la forte radicalizzazione che attraversa la società greca. Da quasi tre anni la Grecia vede in piazza un potente movimento sociale. Un movimento che non è riuscito a fermare le scelte del blocco dominante, a sua volta eterodiretto dalle istituzione europee e dal Fmi, ma che non ha mai abbassato la testa. L'immagine di questo movimento è quella della capitale in fiamme, nel pomeriggio di domenica 12 febbraio (vedi La disfatta e la (possibile) riscossa), mentre il parlamento approvava i nuovi sacrifici imposta dalla troika (Ue, Bce, Fmi).
I limiti risiedono in una linea che ad un no chiaro al Memorandum imposto dall'Europa, fa corrispondere un programma assai evanescente. Syriza si è presentata alle elezioni del 6 maggio, e poi a quelle decisive del 17 giugno, con l'illusione della «rinegoziazione del debito» in un'Europa «più a sinistra», anche alla luce della vittoria di Hollande in Francia. I suoi dirigenti, a partire dal leader Alexis Tsipras, hanno sempre sostenuto di non voler uscire dall'Unione e dall'euro, ma di volervi invece rimanere, solo con qualche sconto sui sacrifici richiesti.
Pur augurandoci il suo successo elettorale, abbiamo segnalato negativamente questa impostazione prima del voto di giugno (vedi, ad esempio, La sinistra greca alla prova del fuoco). Ed una critica analoga è stata espressa, dopo il voto, anche da Emiliano Brancaccio nell'articolo Syriza? Paga per la sua ambiguità.
Syriza non è dunque quel che molti in Italia pensano, basti pensare alla sua accettazione della Nato. E tuttavia la domanda di una «Syriza italiana» è comprensibile, visto lo stato comatoso in cui versa la cosiddetta sinistra radicale, sia nella sua componente governista e Pd-dipendente, sia in quella antagonista e di opposizione.

2. Una differenza decisiva: l'alternatività alla sinistra del capitale
Quel che differenzia la sinistra greca (oltre a Syriza, il Kke e le altre formazioni minori) dalla sinistra italiana, è l'alternatività rispetto alle forze di quella che possiamo definire come «sinistra del capitale», in Grecia il Pasok, in Italia il Pd. Questa differenza sarà anche dipesa dalla diversa strutturazione dei sistemi politici, ma alla fine è proprio questo il punto decisivo che rende così difformi i panorami politici dei due paesi.
La sinistra greca non si è compromessa nelle alleanze di «centrosinistra», esattamente il contrario di quel che ha fatto la sinistra italiana. Le formazioni che hanno preso vita dopo lo scioglimento del Pci del 1991 (Prc, Pdci, Sel), non hanno invece mai avuto un orizzonte strategico che guardasse oltre l'alleanza con il carrozzone Pds-Ds-Pd. Si pensa forse che vent'anni di politica opportunista possano essere cancellati con un colpo di spugna? A qualcuno potrebbe oggi tornar comodo, ma non si riconquista in breve tempo la credibilità perduta in un tragitto così lungo. Del resto le tre formazioni di cui sopra si sono alleate con il partito di Bersani perfino alle amministrative del maggio scorso, dunque non con un Pd all'opposizione del governo Berlusconi, bensì con un Pd impegnato a sostenere con convinzione l'esecutivo Monti, cioè il governo più antipopolare della storia repubblicana.
Tra l'altro, se oggi il dissenso e la rabbia popolare dirige i suoi consensi su Grillo, oltre che sull'astensionismo, la ragione principale sta proprio in questa subalternità strutturale di una sinistra che si vorrebbe «radicale», ma che è invece giustamente percepita come gregaria ed interna ad un sistema politico complessivamente asservito alle oligarchie dominanti. Il grillismo ha attecchito in Italia proprio per mancanza di alternative a questo sistema, mentre in Grecia le cose sono andate diversamente grazie all'esistenza di una sinistra credibilmente alternativa.
Ecco un punto che chiamerebbe alla riflessione chi di dovere, perché è davvero illuminante il fatto che la ventennale storia del Prc abbia portato nell'attuale vicolo cieco, con il minimo di forza ed influenza politica nel momento massimo della crisi sistemica. Sarebbero andate così le cose se Rifondazione avesse quanto meno evitato di impaludarsi nelle alleanze di centrosinistra? La domanda è retorica e la risposta la conoscono tutti, ma finché i diretti interessati eviteranno come il peccato ogni seria riflessione ci vediamo costretti a riproporla.

3. Una «Syriza degli esclusi»?
Se una coalizione alla greca - radicale nella sua alternatività alla sinistra del capitale, anche se subalterna rispetto al Moloch europeo - può essere esclusa, sembra invece affacciarsi l'ipotesi di una sorta di «Syriza degli esclusi». Il motore di questa ipotetica costruzione non sarebbero tanto le forze che ne farebbero parte, quanto il meccanismo escludente messo eventualmente in moto dal Pd.
Ognuno capisce quale sarebbe la forza, meglio dire la debolezza, di una siffatta coalizione. Essa non sarebbe un «fronte del rifiuto» (rifiuto dei diktat europei e delle forze che li traducono in atti politici in Italia), bensì un'accozzaglia del «non possiamo fare altro».
Paolo Ferrero, ora che vede messa in dubbio (dal Pd, beninteso) la propria tradizionale politica delle alleanze elettorali, scopre Syriza, così come due mesi fa lanciava appelli a fare il Front de Gauche come in Francia. Evidentemente, più che un giudizio di merito la ricerca è quella - assai disperata - di un'ancora di salvataggio. Leggiamo l'ex ministro del governo Prodi: «Per la prima volta una forza di sinistra contro le politiche di austerità europee, dichiaratamente antiliberista e anticapitalista, raggiunge una percentuale del 27% e complessivamente le forze della sinistra antiliberista arrivano attorno al 40%. Lo fa in nome di un’altra Europa, di una Europa democratica basta sui diritti sociali e civili, dove il rovesciamento delle attuali politiche europee non è finalizzato ad un nuovo nazionalismo ma ad una nuova Europa».
Da notare il doppio richiamo all'Europa - l'altra Europa, una nuova Europa - contrapposti al «nazionalismo», ovviamente evocato per negare anche solo una discussione sul tabù della sovranità nazionale. Altrettanto ovviamente, Ferrero evita ogni riflessione autocritica. Bisogna fare una Syriza italiana solo perché oggi questa sembra l'unica possibilità per rimettere piede nelle aule parlamentari.
Se questo è Ferrero, potete immaginarvi Vendola. Costui ha reagito all'asse Bersani-Casini accoppiandosi con Di Pietro. Bersani (ed anche Casini) lo vorrebbero come copertura a sinistra del montismo nella prossima legislatura. Di Pietro invece non lo vogliono. A volte è un populista, parla male l'italiano e sputacchia mentre impreca in molisano: non può entrare nel salotto della sinistra capitalista, il galateo lo impedisce.

CON I MESI CONTATI

Eugenio Benetazzo - 20 Luglio 2012 - cadoinpiedi -

In Spagna il settore pubblico è in ginocchio. Un'insegnante che guadagnava 1300 euro ora ne prende 900. E noi siamo i prossimi. L'Italia non uscirà indenne da questa depressione. Il settore bancario sta dando i primi segnali preoccupanti

CON I MESI CONTATI
            La Spagna sta vivendo in questo momento una profonda crisi di natura sociale, dovuta, sostanzialmente, al collasso della classe media borghese. Nello specifico dobbiamo prendere in considerazione proprio quello che sta colpendo, quello che sta caratterizzando tutto il settore pubblico spagnolo che ha visto contrarsi, in misura considerevole i propri livelli reddituali a seguito dei tagli che hanno caratterizzato gli stipendi e i salari dei dipendenti pubblici. E questo è stato fatto in misura trasversale, andando a toccare tutte le mansioni, tutti i lavori tipici che vengono riconosciuti a un'attività statale o parastatale, per cui si va per esempio dal pompiere alla maestra d'asilo o di scuola elementare, al postino fino all'infermiere che lavora all'ospedale.
Il personale dipendente dello Stato ha subito una contrazione della propria capacità di reddito piuttosto consistente in quanto per 3 volte consecutive sono stati tagliati i livelli di reddito. Solo la settimana scorsa il Governo ha decurtato di un ulteriore 7% i precedenti livelli. Pensate che un'insegnante che prima guadagnava quasi 1300 Euro al mese in Spagna, oggi dopo la fase di implementazione delle prime procedure di austerity, si trova con 900/950 Euro. Quindi, sul piano economico vi è un contenimento sostanziale poi della capacità di reddito e questo impatta profondamente sulla vita delle persone normali. Ognuno di noi costruisce la propria pianificazione familiare e personale sulla base della sua capacità di reddito, questo spiega anche poi la difficoltà di continuare a mantenere i propri impegni: mutui, prestiti personali etc.

I fenomeni di sommossa popolare che stiamo vedendo sono legati soprattutto a forme di protesta, se non addirittura di guerriglia civile, portate avanti proprio da impiegati dello Stato che sono letteralmente in rivolta con una violenza che non si è mai vista prima, nei confronti degli attuali politici, dell'attuale governo che si sta prestando a sforbiciare continuamente sui costi degli apparati statali. Oltre al taglio dei livelli reddituali sono stati previsti per il 2012 anche per esempio il congelamento delle tredicesime, questo proprio per aiutare le casse del Paese spagnolo a essere in grado di sostenersi. Ricordiamo le esternazioni del Ministro delle Finanze, il quale ha allarmato e impressionato tutte le comunità finanziarie con quella spiacevole affermazione, forse mal gestita sul piano dialettico, in cui ha ricordato che senza gli aiuti sovranazionali la Spagna sarebbe già in default.
In questo momento si sta assistendo a un'impennata di richieste di alloggi sociali, persone che prima lavoravano e che a seguito anche di questi tagli consistenti sono obbligate a abbandonare l'abitazione principale, non sono più in grado di sostenere per esempio gli affitti e tentano di ricorrere a un alloggio sociale.

La probabilità che questo tipo di scenario si verifichi anche in Italia è notevolmente elevata, per ragioni di somiglianza. Il percorso pare chiaro: prima la Grecia (abbiamo visto cosa ha dovuto digerire e metabolizzare), poi la Spagna e poi, per ragioni di analogia, toccherà anche a noi intraprendere questo tipo di medicina o di cura.
Ricordo che ci sono delle similitudini tra Spagna e Italia che sono impressionanti. La Spagna ha vissuto anche essa sopra le sue possibilità negli ultimi 5 anni e ha un peso sulla popolazione complessiva di quasi 3 milioni di dipendenti statali. In Italia siamo a oltre 3,4 milioni. La necessità di risanare il sistema bancario spagnolo l'abbiamo conosciuta dai media. Ma in parte la stiamo vedendo anche in Italia. I processi di riorganizzazione e di ristrutturazione dei grandi gruppi bancari italiani sono preoccupanti. Fino a qualche anno fa nessuno ipotizzava tutto ciò, per la cosiddetta solidità e grado di tutela che aveva il panorama bancario italiano. Oggi si parla di esuberi in tutti i grandi gruppi bancari italiani, a cominciare anche da dismissioni non solo di attività, ma anche di chiusura di sportelli. Questo fa capire il grado di pericolo a cui stiamo andando incontro.

Purtroppo non c'è la via d'uscita, non c'è un pulsante da premere per riportare tutto alla normalità. Le aspettative che dobbiamo avere tutti quanti sono quelle di una nuova grande depressione economica che non colpirà solo l'Unione Europea, ma tutto il mondo perché ormai i mercati, purtroppo, sono strettamente collegati e una fase di contrazione, di profonda recessione di un'area continentale, impatta profondamente sulla vita degli altri, ed è quello che sta accadendo. La crisi del debito sovrano che sta adesso diventando la crisi della classe media borghese per l'aumento della tassazione, la diminuzione del riverbero dello stato sociale con le problematiche finanziarie per il risanamento degli stati, hanno come prima ripercussione un ridimensionamento del livello dei consumi su scala europea, i quali poi diventano conseguenti a problematiche economiche di paesi che in questo momento hanno puntato tanto sull'esportazione di output produttivo come per esempio la Cina e l'India, oppure di materie prima come il Canada, Brasile e l'Australia. Questa nuova, grande, depressione economica non so quanti anni potrebbe durare e temo che neanche l'intervento degli organismi sovranazionali sarà in grado di tamponare questo momento epocale in cui ci troviamo a vivere. 

Fiscal Compact

CINQUE RIGHE E MEZZA! - byoblu
Cinque righe e mezzo

Cinque righe e mezza! Sembra incredibile, ma tanto ha dedicato il Corriere della Sera, nell'edizione di oggi, all'approvazione del Fiscal Compact e del Mes. Cinque e righe e mezza all'interno di un articoletto in fondo a pagina 7, riuscendo perfino a non nominarli nè nel titolo ("Sì alle regole di bilancio Ue e al Fondo salva Stati. Assalto alla spending review") né tantomeno nel sottotitolo, dove addirittura i due trattati vengono relegati allo stesso rango di migliaia di altri interventi ("al Senato 1800 emendamenti al taglia-spese").
il Fiscal Compact ci obbligherà a sostenere almeno 50 miliardi all'anno di tasse e tagli per vent'anni. Il Mes, invece, ci porterà via immediatamente 15 miliardi, ci indebiterà per almeno 125, ma anche per qualunque altra cifra ci verrà richiesta in futuro, e non prevede per nessun governo successivo a questo la possibilità di uscirne. Ma per saperlo, i lettori del Corriere della Sera dovrebbero conoscere questo blog, perché perfino le cinque righe e mezza sepolte in fondo a pagina 7 si limitano a dire:
"ROMA - Approvati in aula definitivamente gli strumenti europei del Fiscal compact, le regole europee di bilancio varate in primavera, e del nuovo fondo salva Stati, ossia lo European Stability Mechanism (Esm)"
In Germania, su questi argomenti, si chiama in causa la Corte Costituzionale, che deciderà il 12 settembre prossimo. In Italia si scrivono cinque righe e mezza, a pagina 7, il giorno dopo. Finché i giornali non spariranno, non avremo mai nessuna speranza.


COSE NOSTRE
After 20 years from the "bombing season" and the murders of judges  Falcone and Borsellino, collusion State-Mafia is still very nebulous.

giovedì 19 luglio 2012

Le tre sorelle del mercato finanziario

Fonte: il manifesto | Autore: Enrico Grazzini
        La riforma del rating, con un’autorità di controllo europea che tagli il filo del conflitto di interessi tra le agenzie e i loro clienti Una bussola pubblica per fermare la speculazione e orientare gli investimenti. Anche così si può invertire la rotta d’Europa
Le tre agenzie private di rating Standard & Poor’s, Moody’s e Fitch rappresentano le bussole della finanza: orientano flussi di migliaia di miliardi da parte degli investitori e possono così fare vivere o morire aziende e nazioni. Finora però hanno sbagliato spesso (vedi per esempio i casi clamorosi di Enron e Lehman Brothers considerati molto affidabili poco prima di fallire) e di fatto alimentano la speculazione contro gli stati europei più in difficoltà con il rischio crescente di farli fallire. Per avere una bussola più affidabile suggeriamo che in Europa lo European Securities and Markets Authority, ESMA, l’organismo europeo che vigila sul sistema finanziario, crei un’autorità pubblica indipendente per sovraintendere e certificare autonomamente le attività di rating sui titoli di debito.
Le agenzie di rating valutano l’affidabilità delle aziende, degli enti, degli stati e giudicano se sono in grado di ripagare o meno i loro debiti. Se un’azienda o uno stato vengono classificati come buoni debitori, allora gli investitori corrono a finanziarli prestando loro denaro a bassi tassi di interesse. Se invece le aziende o gli stati vengono giudicati come poco affidabili e rischiosi, gli investitori si tengono alla lontana o prestano denaro a tassi di interesse elevati (come accade attualmente all’Italia e agli altri paesi del sud Europa). Il ruolo delle agenzie è fondamentale nel mercato finanziario che si basa sulle informazioni e sulle scommesse sul futuro.
Tuttavia le tre agenzie di rating sono criticate per molti motivi: perché costituiscono un monopolio mondiale, dal momento che insieme controllano circa il 95% del mercato. Perché sono in prevalenza americane e sono considerate la longa manus della speculazione anglosassone; perché guadagnano profitti enormi e generalmente hanno un margine superiore al 50%. Perché hanno clamorosamente sbagliato assegnando valori massimi di affidabilità a titoli spazzatura o addirittura tossici – come nel caso dei derivati dei subprime -. Perché hanno dato il voto massimo (tripla A) a Lehman Brothers pochi giorni prima che la banca d’affari fallisse trascinando quasi tutto il mondo nella crisi. Perché continuano ad abbassare il rating degli stati che cercano di rimettere i loro conti a posto, esponendoli sempre più a rischio, fino a condurli quasi al fallimento, come nelle profezie che si autoavverano.
La critica maggiore e più eclatante riguarda però il rapporto incestuoso con i loro clienti: infatti le agenzie sono notoriamente pagate da chi giudicano, cioè dai venditori di titoli di debito e non dai compratori.
In effetti i problemi principali da affrontare sono tre: 1) le agenzie di rating sono società private orientate al profitto e pagate da chi dovrebbero controllare e valutare, in palese conflitto di interessi; 2) i loro criteri di valutazione non sono trasparenti e condivisi; 3) le loro valutazioni hanno valore ufficiale anche per le istituzioni pubbliche, come la Bce. Per affrontare questi tre problemi è indispensabile creare un’autorità pubblica indipendente europea.
Il primo problema di base è che le agenzie di rating sono bussole orientate da chi le paga. E’ come se gli editori pagassero anche le recensioni dei libri che pubblicano. Il conflitto di interessi è tanto più clamoroso considerando che le agenzie fanno capo a società finanziarie private. Capital World Investors, una delle più grandi società di gestione del risparmio negli Stati Uniti, ha una quota di poco superiore al 12% sia in Standard & Poor’s che in Moody’s. E Moody’s ha tra i primi soci di riferimento la Berkshire Hathaway, che a sua volta è in mano a Warren Buffet, il notissimo finanziere ottantenne tra i primissimi nella lista degli uomini più ricchi del mondo.

In attesa della Troika.

Il Presidente e la Costituzione
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di Giorgio Cremaschi - Rete28Aprile
Secondo il palazzo politico e mediatico, il Presidente della Repubblica nel suo ricorso alla Corte Costituzionale contro i giudici di Palermo avrebbe agito per difendere la Costituzione Repubblicana.
Facciamo un breve riassunto. Dal novembre dell'anno scorso abbiamo un governo di emanazione presidenziale, che fonda il suo programma su una lettera che due banchieri, Draghi e Trichet, inviarono al governo Berlusconi nell'agosto precedente.
Sulla base di quel programma sono state scardinate le pensioni, abolito l'articolo 18, stabilito un regime di austerità che ha portato l'Italia alla più grave crisi economica del dopoguerra. Sono state cancellate definitivamente le autonomie locali, vincolate al patto di stabilità, mentre si annuncia la vendita all'incanto dei beni pubblici e si è tentati di abolire 25 aprile e Primo Maggio.
Infine è stata cambiata la Costituzione formale nell'articolo 81, con l'obbligo del bilancio in pareggio, che non casualmente i padri costituenti non avevano inserito.
D'altra parte questa scelta ha semplicemente introdotto nella nostra Carta un articolo contenuto in quella tedesca. Così pure il parlamento si prepara a votare il fiscal compact, cioè l'adesione ad un patto leonino che ci vincolerà per venti anni nella riduzione del debito pubblico, con costi economici e sociali insopportabili.
Tutte queste scelte sono state esplicitamente pretese e sostenute dal Presidente della Repubblica. Che non solo ci ha abituato ai suoi interventi su qualsiasi tema di governo, ma recentemente si è spinto anche oltre.
Giorgio Napolitano infatti ha recentemente affermato che chiunque governi dopo le prossime elezioni, sarà tenuto a continuare il programma di Monti. Il programma del suo governo.
Così siamo entrati in una repubblica presidenziale che ambisce a diventare una monarchia. E si capisce perché, allora, lo stesso Napolitano sia giunto a chiedere la convocazione di una assemblea costituente.
Ora, dopo questo metodico smantellamento della costituzione materiale e di quella formale, improvvisamente si scatena un sussulto in difesa della nostra Carta. Sono i giudici di Palermo impegnati sul fronte della mafia, sono loro che minacciano la Costituzione.
Non è nuova questa particolare sensibilità costituzionale, è la stessa che fu di Craxi e Berlusconi, di cui nel passato l'attuale Presidente fu noto estimatore.
(18 luglio 2012)

La sinistra italiana che non ha futuro. Perché non ha passato.

 



di Sergio Di Cori Modigliani

E’ una calda domenica d’estate, afosa e noiosa. Il che può indurre a derive narcisistiche. Da cui la scelta di estendere pubblicamente una confessione intima della mia esistenza.

Ieri notte, a letto, chiacchierando con la mia compagna, a un certo punto le ho detto, con disperata sincera amarezza: “Io odio la sinistra italiana, li odio davvero tutti. Io sono uno di sinistra, da sempre. Come me la metto?”.

E’ il paradosso della mia esistenza, sezione passione civile. Per il momento non ha soluzione.

Mi auguro che questa confessione venga condivisa da qualcuno, mi farebbe sentire meno perverso. Altrimenti, va bene uguale. Vi invidio nelle vostre sicurezze.

Mi sono interrogato a lungo sui perché la sinistra italiana sia la più squallida d’Europa e del mondo occidentale. Vado spesso a spulciare nei siti e bloggers della sinistra democratica, di cui mi fido, in Germania, Francia, Gran Bretagna, Irlanda, Spagna, Portogallo, Olanda, Argentina, Usa, Colombia, Peru, Uruguay. Leggo cose diverse, opinioni molto spesso contrastanti, su alcuni aspetti discordo, su altri concordo, ma l’aspetto per me –in quanto italiano- più avvilente e triste consiste sempre nel dover registrare l’esistenza di una notevole intelligenza attiva, priva di vanità e narcisismo auto-referenziale. Usano argomentazioni elaborate e pertinenti alla loro specifica situazione locale. Come mai? Perché loro sì e noi no? Qual è la differenza tra loro e noi?

Soltanto gli italiani sono mitòmani. Questa è una caratteristica della nostra etnia che è chiaramente borderline: si eccita e si risveglia soltanto quando arriva la necessaria scarica di adrenalina socio-politica nell’intravedere l’orlo del precipizio (vero) che li fa arrapare tutti (per l’appunto “the border”, da cui il nome diagnostico); a quel punto, si viene presi da una intensa eccitazione che provoca di solito, come ogni bravo psichiatra sa, delle inconsulte reazioni ciclotimiche le quali, inevitabilmente, portano (quando va bene) verso una specie di apparente equilibrio ma che la stessa sinistra provvederà poi a squilibrare totalmente per riavvicinarsi a passi da gigante verso il proprio suicidio. Quando va male, invece, sfociano in derive inconsulte, popolate di allucinazioni, fantasmi, isterismi che producono un comportamento collettivo patologico.

Mi sono chiesto. “come mai?”.

Che cos’è che da noi, non va?

Ho chiesto anche ad altri di cui apprezzo l’intelligenza e cultura. Ho ricevuto diverse risposte, nessuna delle quali mi ha mai soddisfatto. Vi propongo, quindi, la mia.

Rispetto alle altre nazioni civili occidentali, la sinistra italiana ha un ritardo (se va bene) di circa 60 anni, davvero molto. Se lo traducete in tempi storico-sociali, sarebbe come dire che un francese si accorge che c’è stata la rivoluzione e hanno ghigliottinato il re soltanto nel 1849. Si accorgono che hanno scoperto l’America nel 1552 e ancora non sanno che la scienza è stata in grado di spedire un uomo sulla Luna e riportarlo indietro. Ecc,ecc.

Che cos’è che ha provocato questo ritardo che altri non hanno?

MOVIMENTO NO DEBITO: LETTERA APERTA ALLE OPPOSIZIONI


Ci rivolgiamo a tutte le organizzazioni, movimenti, persone che in questi mesi hanno maturato o hanno confermato un'opposizione di fondo al governo Monti e alle controriforme da esso fatte, in atto o annunciate. A chi si oppone a tutta la politica di austerità europea che ispira il governo e rifiuta il pareggio di bilancio nella Costituzione, il *fiscal compact*, i patti di stabilità che distruggono lo stato sociale.Ci rivolgiamo a chi sinora ha lottato e lotta contro le terribili conseguenze sociali e civili della politica del governo. Ci rivolgiamo a chi rifiuta l'idea di una democrazia sospesa e in via di esaurimento e quella di un governo sottoposto al voto dello spread e dei mercati, invece che a quello dei cittadini La nostra proposta è di incontrarci per costruire in autunno una grande manifestazione nazionale che abbia lo scopo di mostrare in Italia ed in Europa che l'opposizione al governo Monti esiste e che, senza sottovalutare la portata e l'effetto dei colpi subiti, non intende rinunciare alla lotta, ma anzi vuole ripartire.

Oramai è chiaro che la politica del governo è destinata a continuare. Il Presidente della Repubblica, verso il quale fortissima è la nostra critica, ha già affermato che chiunque vinca le prossime elezioni, il programma di austerità che produce il massacro sociale dovrà continuare e nessuna delle forze politiche che sostengono il governo ha detto cose diverse. Lo stesso pretendono la Bce, il Governo tedesco, la finanza e il grande capitale multinazionale.
Per questo non si può pensare che ci sia solo da aspettare che finisca la nottata: senza la ripresa di un movimento sociale e politico di opposizione essa non finirà, mentre oggi la mobilitazione in Italia contro la politica unica europea è tra le più basse del continente e della nostra storia.
Per questo proponiamo un incontro che abbia come discriminante netta il no alle politiche di austerità in Italia e in Europa e al governo Monti e dunque l'indipendenza e l'opposizione rispetto a tutte le forze politiche che lo sostengono. Questo in unità con tutti coloro che, a partire dalla Grecia e dalla Spagna, le combattono e in collegamento con l'assemblea dei movimenti prevista a Madrid per settembre.
Sappiamo che il 15 ottobre del 2011 ha prodotto divaricazioni e rotture ancora non ricomposte ed è evidente che per superarle ed evitare che si ripetano occorrerà un confronto leale e con garanzie reciproche che nessuno eserciterà primogeniture, egemonie, forzature.
Conosciamo e viviamo le difficoltà, ma chiediamo di provarci.

Rovesciare Assad con la violenza? Le due risposte di padre Dall'Oglio

- ildialogo -
di Patrick Boylan

Mercoledì, 11 luglio, il padre Paolo Dall'Oglio, gesuita, fondatore del monastero di Deir Mar Musa in Siria ed ora, da un mese, persona non più gradita dal governo siriano per via del sostegno morale e materiale che ha offerto apertamente ai rivoltosi, ha tenuto a Roma due importanti interventi sull'insurrezione in corso nel paese levantino, prima al Campidoglio e poi alla Città dell'Altra Economia.
In entrambi c'è stato, sullo sfondo, l'annosa questione dibattuta nei media da oltre un anno: per cambiare il governo autoritario del Presidente Bashar al-Assad, è legittimo il ricorso alla violenza da parte dei rivoltosi siriani, inizialmente pacifici ma da tempo ben armati dagli Stati Uniti e dai loro alleati? E se la rivolta dovesse impantanarsi come spesso avviene, sarebbe legittimo un intervento militare internazionale, anche senza mandato ONU, per far vincere i giovani rivoltosi o comunque per porre fine alle violenze che essi subiscono?
Le due domande non sono oziose e aprono scenari inquietanti. Se dovessimo rispondere di sì ad entrambe – come fa gran parte dei media occidentali -- cosa diremo un domani se l'Iran e la Russia (o la Cina e l'India) rispondessero di sì anche loro? Cosa diremmo, ad esempio, se la popolazione dell'Arabia Saudita (il cui monarca-dittatore Abdullah viene considerato da Amnesty Internazionale assai più feroce e tirannico di Assad) o se la popolazione del Bahrein, oppressa e martoriata dal re-dittatore Ali Khalifa, dovessero chiedere armi alla Russia o all'Iran per rovesciare il loro regime ed instaurare la democrazia? Considereremmo legittime queste rivolte armate? Considereremmo legittima anche la creazione di “corridoi umanitari” da parte dell'Iran o della Russia, “per proteggere i civili” sauditi e bahreiti e per consentire alle loro guerriglie di agire indisturbate? E cosa diremmo se il popolo cambogiano si ribellasse contro il regime autoritario ventennale di Hun Sen, avvalendosi del sostegno della Cina o dell'India sotto forma di forniture d'armi e in seguito di interventi militari “umanitari”, come la creazione di una “zona d'interdizione aerea” sopra la Cambogia e il ricorso a bombardamenti “chirurgici” per aiutare i ribelli, come ha fatto la Nato in Libia?
In una parola, dove cominciano e dove finiscono i principi della “Responsabilità di Proteggere” (norma ONU emergente) e della “guerra umanitaria” (dottrina attribuita a Václav Havel). Questi principi valgono solo quando siamo noi paesi occidentali ad invocarli per poter rovesciare dittature a noi non gradite? O valgono anche quando vengono invocati dai nostri rivali, per allargare la propria sfera d'influenza geopolitica rovesciando le dittature filo-occidentali? Ora che è iniziata la corsa tra Est ed Ovest per impossessarsi delle ricchezze dei paesi africani, la domanda è tutt'altra che oziosa.
Ed ecco perché la crisi siriana è diventata il terreno di scontro che deciderà le regole del gioco nelle relazioni internazionali del futuro.
Sullo sfondo di tutti questi interrogativi, il padre Dall'Oglio ha preso la parola nella prestigiosa Protomoteca del palazzo del Campidoglio, graziosamente messa a disposizione dall'amministrazione Alemanno (senz'altro d'intesa con la Farnesina), per rivolgersi ad una platea in larga misura preventivamente a favore di un intervento militare occidentale in Siria. Il convegno capitolino è stato infatti indetto dall'associazione “Siria libera e democratica” il cui Presidente Feisal al-Mohammed, dissidente siriano residente in Italia da 40 anni, è stato in passato promotore di diverse iniziative anti-Assad (e, in sordina, pro-intervento Nato) nella Capitale.

Shock alla radio francese (RMC): un siriano racconta la verità sulla Siria

mercoledì 18 luglio 2012

QUINTO POTERE


QUINTO POTERE

di Paolo Gila - 4 Luglio 2012

Le agenzie condizionano scientemente non solo i mercati, ma anche la vita politica dei Paesi. Nel caso dell'Italia, S&P's ha pubblicato i suoi report con precisione millimetrica prima di eventi di grande significato politico. Il vero obiettivo? Spostare liquidità dall'area Euro all'area dollaro, allo scopo di sostenere il debito pubblico americano

Si usa denominare quarto potere la capacità dei mass media di influenzare le opinioni e le scelte dell'elettorato. È questo un uso metaforico del termine potere, ispirato alla teoria giuridica della separazione dei poteri fondamentali (legislativo, giudiziario, esecutivo) dello Stato. Con la crisi economica le agenzie di rating sembrano essersi rivelate una sorta di "quinto potere".

Accuse pesantissime quelle formulate dai pm di Trani nei confronti di Standard & Poor's. Secondo la ricostruzione dei magistrati, tra Maggio 2011 e Gennaio 2012 l'agenzia di rating americana avrebbe intenzionalmente "manipolato i mercati azionari causando all'Italia un danno patrimoniale ingente".
Perché l'inchiesta di Trani è così importante e cosa sta trasferendo di nuovo all'opinione pubblica? L'abbiamo chiesto a Paolo Gila, coautore con Mario Miscali, de "I signori del rating" (Bollati Boringhieri).


"Ciò che sorprende nell'inchiesta di Trani è intanto la compilazione di una documentazione molto robusta, sono 4500 pagine fitte di trascrizioni, dichiarazioni che derivano da intercettazioni telefoniche e da controlli di posta elettronica, dunque non ci sarebbero solo indizi, ma anche prove consistenti.
Esemplare in questo senso è il dialogo telefonico tra alti dirigenti dell'agenzia Standard & Poor's tra New York e Milano, protagonisti l'allora Presidente dell'agenzia Deven Sharma e Maria Pierdicchi, amministratore delegato di Standard & Poor's in Italia. Il brogliaccio è imponente, c'è davvero molta carne al fuoco, il PM del Tribunale di Trani chiede di procedere per manipolazione del mercato pluriaggravata e continuata. Adusbef e Federconsumatori, autori e firmatari dell'esposto alla magistratura per i 4 report pubblicati da Standard & Poor's dal maggio 2011 al gennaio 2012, avevano chiesto addirittura di esplorare l'ipotesi di grave attentato all'integrità dello Stato. Al centro della vicenda non c'è solo il giudizio tecnico da parte dell'agenzia alla contabilità dello Stato italiano, ma anche precise critiche alla politica, al governo Berlusconi prima, nell'agosto 2011 e poi a quello di Mario Monti nel gennaio 2012.

IL CAVALLO DI TROIKA

- byoblu - Tra le molte misure che il memorandum della Troika (BCE, UE, FMI) ha imposto alla Grecia, ci sono le privatizzazioni. Tenetevi forte: vi leggo uno stralcio tratto da "La guerra dell'Europa" (p.63) di Monia Benini: " Uno degli allegati che si riferiscono al programma di privatizzazioni fornito dal Fondo Monetario a marzo di quest'anno assomiglia a un bollettino di guerra, anzi all'inventario del bottino di guerra combattuta senza armi. Ricorda il programma di cento punti affidato dagli Usa al generale che guidava l'esercito di occupazione dell'Iraq che, un po' più dettagliatamente, recava anche i nomi delle multinazionali alle quali assegnare il bottino. Si va dal Gas pubblico (DEPA e DESFA) alle scommesse sul calcio, dal sistema di difesa ellenico (EAS) alla Hellenic Petroleum (HELPE); per poi passare al servizio idrico di Atene (EYDAP) e di Thessalonica (EYATH), alla Compagnia Mineraria e Metallurgica (LARCO), alle Poste Greche, alla Compagnia per l'Elettricità (PPC), alle ferrovie, all'aeroporto di Atene, alle autostrade. E ancora sono in elenco le lotterie di stato, i porti e i grandi beni immobili statali. Una totale spoliazione ". Se è vero che le guerre non si fanno più con i carrarmati, è altrettanto vero che per fare un golpe non serve più l'esercito. Basta lavorare sui media e farli titolare "FATE PRESTO!", all'unisono. Il volgo cresciuto a colpi di "Ok, il prezzo è giusto!" si beve tutto. La Troika in Italia, almeno formalmente, non è mai arrivata. Non ne ha avuto bisogno: abbiamo fatto tutto da soli. Non abbiamo avuto neanche la dignità di costringere l'invasore alla conquista. Servi, ruffiani e leccaculo hanno confermato il ruolo che storicamente ci appartiene. I traditori hanno aperto i portoni al cavallo di troika e l'hanno tirato dentro, dove lentamente sta eseguendo la confisca del nostro benessere e delle nostre cose. Eni, Finmeccanica e il resto seguiranno. Ogni cosa a suo tempo.

martedì 17 luglio 2012

Il grande spazio per la sinistra c'è


di Paolo Beni
Non c’è dubbio che la vicenda greca offra indicazioni preziose alla sinistra italiana: sulla possibilità di costruire un’alternativa al paradigma liberista, ma anche sui rischi della frammentazione e sulla necessità di aggregare i diversi sociali attorno ad un progetto di cambiamento.
La crisi greca ci squaderna sotto gli occhi uno spaventoso arretramento dei diritti sociali, civili e politici conquistati in decenni di storia europea. La pretesa di liberare il mercato da ogni vincolo sociale sta cancellando l’universalismo dei diritti che le Costituzioni democratiche del dopoguerra…. avevano sancito come principio irrinunciabile.
E’ sempre più chiaro che la vera prospettiva europeista è fuori dal liberismo, in un progetto transnazionale di solidarietà e giustizia sociale, partecipazione e controllo democratico sull’economia e la finanza.
C’è un filo che lega, pur con evidenti diversità, i risultati delle recenti elezioni francesi e tedesche col successo di Syriza in Grecia: in Europa stanno maturando le condizioni per un cambio di rotta. Quando sono chiamati a esprimersi col voto i cittadini europei bocciano le scelte della destra conservatrice e neoliberista di fronte alla crisi; la sinistra raccoglie consensi quando si oppone alle ricette imposte dai tecnocrati del mercato, viene invece punita dagli elettori laddove è subalterna al ricatto dei poteri finanziari.
L’Europa del monetarismo ha fallito e i suoi governi, succubi di fronte all’impunità del mercato, scelgono di scaricare il costo di quel fallimento sui più deboli. Ma le politiche di austerità e rigore a senso unico si dimostrano impotenti ad arginare la crisi e far ripartire la crescita, spingono le economie europee nella recessione, producono il massacro dei diritti sociali e la messa in mora della democrazia. La situazione implode ed è evidente che serve un’alternativa, ma questa non esiste dentro le compatibilità imposte da quegli stessi poteri che della crisi sono i primi responsabili.
Serve una svolta profonda, che parta dalla presa d’atto del fallimento del liberismo e della necessità di rimettere in discussione le basi culturali di quel modello di sviluppo. E’ l’ora di cambiare strada, con scelte nette e rigorose nell’orizzonte di uno sviluppo mirato alla riconversione ecologica dell’economia, alla qualità e alla sostenibilità delle attività produttive, ai beni pubblici e sociali. Non è vero che il risanamento dei conti pubblici sia incompatibile con l’equità, la giustizia sociale, la partecipazione democratica. E’ questione di scelte: rimettere al centro del modello economico e sociale il lavoro, i beni comuni, il welfare pubblico, la sostenibilità ambientale, la cultura e l’istruzione, una vera democrazia al servizio delle persone e delle comunità.
Questa oggi è la vera sfida per la sinistra. Saremo in grado di affrontarla solo se sapremo produrre un grande sforzo culturale. Per alimentare un nuovo progetto serve un pensiero nuovo, che parta dalla critica degli errori compiuti in questi anni in cui l’illusione di mitigare il liberismo e contenerne gli effetti sul piano sociale ha prodotto la più grande sconfitta storica della sinistra. Nella società italiana c’è una domanda di cambiamento che non trova risposte adeguate e solo col rinnovamento della politica potrà avere uno sbocco positivo. In questa situazione c’è un grande spazio per la sinistra, se saprà rappresentare in modo credibile un’altra idea di economia, di società, di democrazia.
La prima condizione è che i partiti non facciano ancora una volta l’errore di confidare nella propria autosufficienza e prendano atto della crisi che li attraversa. Ciò che serve non sono le scorciatoie leaderistiche o le alchimie tattiche, ma ricostruire il rapporto con la società, coinvolgere i soggetti sociali, dare dignità alle diverse forme della rappresentanza. E’ dal basso che può crescere l’alternativa: dai territori e dalle comunità locali, dall’iniziativa civica diffusa che riconquista lo spazio pubblico e ridà senso a un’idea della politica che non è gestione dell’esistente ma processo collettivo di trasformazione.

Europa, una lunga storia dall’Atlantico agli Urali

Fonte: il manifesto | Autore: Nicola Cipolla
        Non c’è, nella sinistra anticapitalista, la consapevolezza della centralità della crisi ambientale, uno dei tre flagelli che il capitalismo infligge all’umanità. In Italia, creati 60 mila posti di lavoro con le energie rinnovabili
Monica Frassoni nell’articolo: «Occupy Europe» sul dibattito aperto con l’iniziativa di manifesto, Verdi e Sbilanciamoci di Bruxelles, del 28 giugno scorso, afferma che per uscire dalla crisi occorre lasciar perdere le centrali a carbone e petrolio e le spese militari, tra cui i costosissimi F35 americani, per finanziare l’efficienza energetica le rinnovabili e lo sviluppo della cultura. Rossana Rossanda aveva dato notizia che a Bruxelles erano intervenuti gli eredi delle posizioni di Spinelli e dei gaullisti dell’Europa delle patrie. Così ecco il ricordo dei vecchi tempi.
Dal 1969 al 1976 ho fatto parte, sotto la direzione di Giorgio Amendola, della pattuglia di deputati comunisti entrati al parlamento europeo dopo che finalmente era stata eliminata la discriminazione antisocialista e anticomunista delle prime due legislature. Denunciammo i vizi d’origine della costruzione europea. Da un lato un’unione regionale, in violazione degli accordi di Yalta, nel quadro della politica Nato e del sistema di Bretton Woods,e dall’altro, sulla base dei Trattati di Roma, una concezione mercantilistica e privatizzatrice contraria ad ogni forma di intervento pubblico e di stato sociale.
L’Spd tedesco di Schumacher aveva definito la Ceca, l’Euratom e poi la Cee come infeudate alle quattro k: kapitalism, klericalism (Schumann, Adenauer e De Gasperi erano tra i promotori dell’Unione) korservatorism, kartellen.
Ancora più forte era l’opposizione di De Gaulle che fece uscire la Francia dall’organo militare della Nato, diede il via all’autonomia atomica, con la force de frappe (affossando così L’Euratom), e con il Piano Fouchet propose una “unione delle patrie” in contrapposizione a quella degli apatrides di Bruxelles e soprattutto neutrale tra i due blocchi contrapposti Usa – Urss, donde la formula: l’Europa dall’Atlantico agli Urali.
Spinelli proponeva, invece, una Europa federale ma sempre all’interno dello schema monnettiano a soggezione atlantica. Il gruppo comunista diventò il centro dell’opposizione concreta alla politica della Commissione e si sforzò di stabilire rapporti, non solo con i partiti socialisti e socialdemocratici, sulle questioni sociali ma anche, in molte occasioni, con il potente gruppo gaullista che votò persino, in alcuni casi, le proposte che partivano dal gruppo comunista mettendo in minoranza la Commissione con grande dispetto dello stesso Spinelli che era allora Commissario in quota socialista. Amendola propose, al convegno sull’Europa promosso dal gruppo comunista al parlamento europeo e dal Cespe, di riprendere la parola d’ordine: l’Europa dall’Atlantico agli Urali suscitando l’opposizione di Bufalini e di altri miglioristi che volevano, dopo essere stati fedeli al mito dell’Urss, far cambiare la linea del Pci di 180° alla ricerca del Washington consensus.

La finanza non cambia, la società va difesa

di Claudio Gnesutta - sbilanciamoci -

"Non esistono soluzioni facili e immediate alla crisi". Nella relazione della Banca dei regolamenti internazionali, una conferma del fatto che la crisi è strutturale e che non ci sono margini nel sistema per riattivare la crescita. È per questo che l'unica strada è cambiare strada

“Chi spera in una soluzione facile e immediata continuerà a essere deluso: soluzioni di questo tipo non esistono.” L’affermazione è della Banca dei Regolamenti Internazionali (82a Relazione annuale, 24 giugno 2012, p. 8), istituzione internazionale il cui compito è di promuovere la collaborazione tra le banche centrali.
L’interpretazione delle Bri è di particolare interesse poiché scaturisce da un’analisi attenta e convincente del processo in atto. Il punto cruciale del quadro interpretativo è individuato – in modo non inedito – nel fatto che la crisi sia una crisi di indebitamente generalizzato e che il processo in atto e le prospettive future derivano dai comportamenti “normali” dei singoli soggetti indotti a privilegiare a ricostituire il proprio equilibrio patrimoniale. Non è certo una novità che le famiglie siano indebitate e siano costrette a risparmiare per rientrare dai loro debiti; che le imprese utilizzino i loro profitti per ridurre l’indebitamento piuttosto che finanziare nuovi investimenti; che il settore pubblico sia sotto pressione per realizzare avanzi correnti e ridurre il debito accumulato nel passato; che le banche e le altre istituzioni finanziarie, appesantite da titoli tossici e dalla perdita di valore di crediti e titoli, siano indotte a utilizzare i redditi correnti per ammortizzare le perdite prima di pensare ad espandere il credito all’economia. Il fatto che tutti i settori dell’economia registrino la medesima situazione segnala che non vi sono margini all’interno del sistema in grado di riattivare la crescita; la crisi è sistemica, di un intero sistema economico e sociale dai carenti meccanismi autoregolatori.
Non si tratta certamente di una novità, se non per il fatto che proviene da un’autorevole istituzione mainstream. Non dovrebbe sorprendere nemmeno l’implicazione che “lentezza del processo di deleveraging in tutti i maggiori settori dell'attività economica contribuisce a spiegare perché la ripresa nelle economie avanzate sia stata così debole”. È evidente che “i tentativi di aggiustamento di ciascun gruppo peggiorano la posizione degli altri” dato che “il settore finanziario esercita pressioni sui governi e rallenta la riduzione dell'indebitamento da parte di famiglie e imprese. I governi, a causa del deterioramento della loro affidabilità creditizia e dell'esigenza di risanare conti pubblici, stanno minando la capacità di recupero degli altri settori. Infine, il processo di deleveraging di famiglie e imprese incide negativamente sulla ripresa di governi e banche”. Una crisi da indebitamento generalizzato comporta inevitabilmente una compressione generalizzata della domanda e quindi dei redditi creando una situazione paradossale in cui l’obiettivo prioritario di ridurre l’indebitamento comporta una compressione dei redditi che impedisce la riduzione del debito. Un’osservazione che, ampiamente sviluppata per il debito pubblico, vale per tutti i settori generando non uno ma “molteplici circoli viziosi.” Un messaggio più chiaro di così non si potrebbe avere per una classe dirigente europea che, incapace di vedere gli effetti complessivi del meccanismo in atto, si trincera dietro a giudizi moralistici (talvolta fondati) sulla correttezza dei comportamenti altrui e propone (in maniera infondata) come prioritario un intervento per mettere ordina in casa propria.
Le difficoltà non si esauriscono qui, poiché nonostante quanto è successo vi è la preoccupazione che le principali banche continuino “ad accrescere la leva finanziaria” (espandendo le operazioni in derivati, ovvero le loro posizioni speculative) “senza prestare la debita attenzione alle conseguenze di un possibile fallimento”. Pare che stiano “gradualmente riassumendo il profilo di elevata rischiosità che le caratterizzava prima della crisi”, ovviamente sempre nella convinzione che, qualsiasi cosa succeda, sarà il settore pubblico a farsi carico della loro insolvenza.
Dall’analisi presentata, tre aspetti dovrebbero balzare immediatamente all’attenzione di qualsiasi autorità di politica economica.

Europa, ancora un vertice quasi inutile.

di Vincenzo Comito

Dopo l'euforia di Bruxelles, qualche riflessione a freddo induce al pessimismo. Più che per il poco che si è fatto, il vertice sarà ricordato per quel che non ha fatto per bloccare la speculazione e avviare davvero la crescita

“…il piano dell’Unione Europea (concordato a Bruxelles) è una soluzione decisiva che usa dei soldi che non esistono per comprare dei titoli che non verranno ripagati e questo attraverso un meccanismo sul quale bisogna ancora mettersi d’accordo…”
Vincent Cignarella, dal Wall Street Journal
Premessa
Può essere utile cercare di analizzare i risultati degli ultimi accordi di Bruxelles diversi giorni dopo l’evento, dopo in particolare che la fretta presente nei commenti a caldo di molti osservatori può ormai lasciare il campo ad una riflessione più analitica e più consapevole. Nel frattempo, la presunta vittoria di Monti al vertice ha persino apparentemente fermato una possibile crisi di governo in Italia, mentre la altrettanto presunta sconfitta della Merkel sta suscitando le ire di una parte dell’opinione pubblica tedesca, del partito cristianodemocratico bavarese, nonché dei governi olandese e finlandese. In realtà a noi sembra che si sia trattato, alla fine, dell’ennesimo vertice sui problemi dell’euro che lascia ancora una volta le cose come stavano; questo, salvo qualche non decisivo passo avanti, che serve a fermare per qualche giorno o al massimo per qualche mese una crisi che sembra sul fondo inarrestabile – qualcuno ha parlato di un treno che avanza lentamente verso il burrone- e continua ad essere senza sbocchi apparenti.
Lo scudo anti-spread
Monti si è recato al vertice di Bruxelles chiedendo un intervento automatico del fondo salva- stati nel caso in cui i tassi di interesse sui titoli pubblici di un paese superassero certi livelli predefiniti. In realtà, c’è da ricordare che questa possibilità di intervento esisteva già prima anche se non era mai stata usata e quindi da questo punto di vista non si è in realtà discusso di niente di sostanzialmente nuovo.
Tanto rumore per nulla, dunque? In gran parte sì. Ma almeno apparentemente le condizioni fissate per l’intervento sembrano a prima vista meno pesanti di prima, almeno secondo l’interpretazione di Monti, cosa che peraltro non è ancora certo sicura; i paesi nordici e forse anche la stessa Germania sembrano poco inclini ad accettare tale interpretazione. In ogni caso, per accedere operativamente al programma, l’Italia sarà soggetta al monitoraggio della Commissione Europea e della BCE.
Ma ci troviamo poi di fronte ad un ulteriore e difficile passo. Il fondo salva stati non avrà certamente le risorse necessarie per intervenire adeguatamente sul mercato in caso di necessità, tanto più dopo gli impegni nei confronti di Grecia, Portogallo, Irlanda ed ora Spagna e Cipro, forse anche con la Slovenia in un prossimo futuro. Bisogna ricordare che il totale dei debiti pubblici italiani e spagnoli si aggira intorno ai 2800 miliardi di euro e che quindi il fondo salva stati, per essere credibile, dovrebbe avere una dotazione di almeno 2500 miliardi e/o avere la possibilità di accendere prestiti per importi molto rilevanti presso la BCE, cosa cui i paesi nordici si oppongono fortemente. Nelle attuali condizioni il fondo potrebbe avere a disposizione, per intervenire sul mercato dei titoli, si e no 150 miliardi di euro, un’inezia. A questo proposito P. De Grauwe, della London School of Economics, ha mostrato nei giorni scorsi come le decisioni prese potrebbero persino destabilizzare gli stessi mercati dei titoli pubblici di vari paesi.
Alla fine, come ha anche scritto W. Munchau sul Financial Times, per l’Italia non è cambiato niente e, aggiungiamo noi, non ci sono in ogni caso soldi per salvare l’Italia e le conseguenze dell’accordo potrebbero essere per altro verso persino catastrofiche.

THE CASTE
the Goldman Sachs & Madoff

I primi due mesi di governo di Francois Hollande

- chatait -
1) Abolizione del 100% delle auto blu
"Un dirigente che guadagna 650.000 euro all’anno, se non può permettersi il lusso di acquistare una bella vettura con il proprio guadagno meritato, vuol dire che è troppo avaro, o è stupido, o è disonesto. La nazione non ha bisogno di nessuna di queste tre figure."

2) Con i 345 milioni di euro risparmiati, apertura il 15 agosto 2012 di 175 istituti di ricerca scientifica avanzata ad alta tecnologia, assumendo 2.560 giovani scienziati disoccupati “per aumentare la competitività e la produttività della nazione”.

3) Abolizione dello scudo fiscale (definito “socialmente immorale”) ed emanazione di un urgente decreto presidenziale per un'aliquota del 75% di aumento nella tassazione per tutte le famiglie che, al netto, guadagnano più di 5 milioni di euro all’anno.

4) Assunzione di 59.870 laureati disoccupati, di cui 6.900 dal 1 luglio del 2012, e poi altri 12.500 dal 1 settembre come insegnanti nella pubblica istruzione.

5) Eliminazione di sovvenzioni statali alla Chiesa Cattolica per il valore di 2,3 miliardi di euro che finanziavano licei privati esclusivi, e varo (con quei soldi) un piano per la costruzione di 4.500 asili nido e 3.700 scuole elementari avviando un piano di rilancio degli investimenti nelle infrastrutture nazionali.

6) Istituzione del “bonus cultura” presidenziale, un dispositivo che consente di pagare tasse zero a chiunque si costituisca come cooperativa e apra una libreria indipendente assumendo almeno due laureati disoccupati iscritti alla lista dei disoccupati oppure cassintegrati, in modo tale da far risparmiare parecchi quattrini della spesa pubblica, dare un minimo contributo all’occupazione e rilanciare dei nuovi status sociali.

7) Abolizione di tutti i sussidi governativi a riviste, giornali, fondazioni e case editrici, sostituite da comitati di “imprenditori statali” che finanziano aziende culturali sulla base di presentazione di piani business legati a strategie di mercato avanzate.

8) Agevolazioni fiscali alle banche che offrono crediti agevolati ad aziende che producono merci francesi; tassa supplementare su chi offre strumenti finanziari.

9) Decurtazione del 25% dello stipendio di tutti i funzionari governativi, del 32% di tutti i parlamentari e del 40% di tutti gli alti dirigenti statali che guadagnano più di 800mila euro all’anno.

10) Con quella cifra (circa 4 miliardi di euro) ha istituito un fondo garanzia welfare che attribuisce a “donne mamme single” in condizioni finanziarie disagiate uno stipendio garantito mensile per la durata di cinque anni, finché il bambino non va alle scuole elementari, e per tre anni se il bambino è più grande.

Tutto questo senza toccare il pareggio di bilancio. Lo spread addirittura è sceso, arrivando a 101. L’inflazione non è salita. La competitività e la produttività nazionale è aumentata nel mese di giugno per la prima volta da tre anni a questa parte.

Hollande, Qualcosa di Sinistra.

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