Ο παγκοσμοποιημένος καπιταλισμός βλάπτει σοβαρά την υγεία σας.
Il capitalismo globalizzato nuoce gravemente alla salute....
.... e puo' indurre, nei soggetti piu' deboli, alterazioni della vista e dell'udito, con tendenza all'apatia e la graduale perdita di coscienza ...

(di classe) :-))

Francobolllo

Francobollo.
Sarà un caso, ma adesso che si respira nuovamente aria fetida di destra smoderata e becera la polizia torna a picchiare la gente onesta.


Europa, SVEGLIA !!

Europa, SVEGLIA !!

sabato 11 febbraio 2012

La crisi non è finanziaria ma del capitale

di Domenico Moro leparoleelecose

1. Sovrapproduzione e crisi

Secondo la maggior parte dei mass media, degli economisti e dei governi, quella attuale è una crisi finanziaria, che successivamente si sarebbe estesa all’economia “reale”. Con questo tipo di analisi si coglie, però, solo la forma in cui la crisi si è manifestata. Se ne ignora invece il contenuto, che risiede nei meccanismi di accumulazione del capitale. Infatti, le crisi sono la modalità tipica in cui emergono le contraddizioni del modo di produzione attuale. La principale di queste contraddizioni è quella tra produzione e mercato. Lo scopo delle imprese è produrre per fare profitti e per fare ciò riducono i costi delle merci in modo da aumentare il loro margine, cioè la differenza tra costi e prezzi di produzione. La riduzione dei costi di produzione passa per la realizzazione di economie di scala, cioè per la produzione di masse di merci sempre più grandi nello stesso tempo di lavoro. A questo scopo vengono introdotte tecnologia e macchine sempre più moderne al posto di lavoratori, e aumentati ritmi e intensità del lavoro. Astrattamente si tratta di un fatto positivo, in quanto lo sviluppo della produttività mette a disposizione dei consumatori masse di merci più grandi prodotte in un tempo minore. Il problema è che la produzione capitalistica è diretta non verso semplici consumatori ma verso consumatori in grado di pagare un prezzo adeguato a raggiungere il profitto atteso, cioè verso un mercato. Ebbene la questione è proprio questa: la produzione capitalistica è una produzione che si estende progressivamente senza alcun riguardo per il mercato cioè per le capacità di acquisto delle merci prodotte. Inoltre, visto che il profitto è dato dal lavoro non pagato dei lavoratori, la riduzione proporzionale di questi ultimi sul capitale complessivo impiegato provoca una caduta del saggio di profitto [1], che si cerca di compensare con l’aumento dello sfruttamento e quindi producendo un numero maggiore di merci. Tutto questo implica che la produzione tende sempre ad eccedere le capacità di assorbimento del mercato, determinando un permanente squilibrio tra le capacità produttive e la limitatezza del mercato. Una limitatezza che viene accentuata proprio dal meccanismo che sostituisce forza lavoro con macchinari e che conseguentemente provoca l’espulsione di lavoratori dal processo produttivo. Secondo uno studio della Banca dei regolamenti internazionali [2], dagli anni ’80 ad oggi in tutti i principali paesi industrializzati si è avuto uno spostamento del Pil dai salari ai profitti. In Italia la quota andata ai profitti è aumentata dal 23,1% del 1993 al 31,3% del 2005. Si tratta dell’8% del Pil, equivalente a 120 miliardi di euro ossia a 7mila euro per ognuno dei 17 milioni di salariati italiani che annualmente passano dai salari ai profitti. Ma la cosa più interessante dello studio della Bri è che la causa di questo fenomeno viene individuata, non nella concorrenza dei lavoratori dei paesi “in via di sviluppo”, ma nella introduzione di nuova tecnologia che, espellendo lavoratori e destrutturando l’organizzazione del lavoro, riduce le capacità di resistenza e negoziazione dei lavoratori. In questo modo, si è determinata la perdita di capacità d’acquisto dei salari ed i lavoratori si sono trovati costretti al lavoro straordinario con l’effetto di ridurre ancora di più la domanda di forza lavoro e di aggravare la disoccupazione. Inoltre, avendo le nuove tecnologie una forte componente informatica, che diventa obsoleta più rapidamente, le ristrutturazioni sono divenute più frequenti. Dunque, mentre da una parte si moltiplica l’offerta di merci sul mercato, dall’altra parte si riduce la domanda, che per la maggior parte è costituita da lavoratori salariati, o, nel caso migliore, non si permette alla domanda di crescere in modo proporzionale all’offerta. Del resto, nella anarchia della concorrenza, ancorché oligopolistica, che regna nel modo di produzione capitalistico, ogni singolo capitale, per battere i concorrenti, tende a realizzare sempre maggiori economie di scala e a ridurre i salari dei propri lavoratori, trattandoli come costi da ridurre e non come compratori. Si produce così una tendenza alla sovrapproduzione di merci che, però, ha alla sua base la sovrapproduzione di capitale sotto forma di mezzi di produzione. Ciò che è importante capire, però, è che la sovraccapacità produttiva è tale entro il modo di produzione capitalistico, che produce solo per il profitto, e che la sovrapproduzione di merci si determina entro i limiti del mercato capitalistico.

Tutto è mercato, il mercato è tutto

di Beppe Grillo
"Caro Mercato,
fai parte ormai della mia vita. Ogni giorno mi informo sulla tua salute, sui tuoi sentimenti ("il sentiment"). Al mattino, a colazione, osservo i tuoi primi turbamenti dalla Borsa di Tokyo e all'ora di pranzo mi collego a Wall Street. Piano, piano, senza che me ne accorgessi sei diventato per me moglie, sorella, amante, figlio, mutuo, debito. Sei la mia magnifica ossessione. Mi prendo cura di te come di un Tamagochi. Per capirti ho imparato il tuo linguaggio, parole come spread, bund, derivati, cds, gdo, debito pubblico, swap, bail out mi sono familiari come pappa, mamma, cacca. Sei il primo oggetto di conversazione "Come va il mercato?" "E' stabile?" "Si sta riprendendo?" "Fluttua?" "Cresce?". Ti deprimi quando non sono ottimista. Qualche volta "bisogna convincerti", altre volte "ti blocchi". Al posto dell'aspirina ti curano con le iniezioni di liquidità, ma per te non sono mai abbastanza. I patti di stabilità non ti piacciono, la tua natura è volatile, da sempre si dice infatti che "il mercato è volatile". Sei libero da qualunque catena, da ogni governo, da ogni controllo. Voli lassù con le agenzie di rating, le tue compagne di svago. Ti rialzi e ti abbassi, qualche volta precipiti, ma mi sorprendi sempre con un picco speculativo improvviso, per poi lasciarmi nella disperazione, vicino al default. Sei uno e molteplice, come si conviene al nuovo dio di questa civiltà. Sei il mercato del petrolio, del cibo, dell'acqua, del gas, delle automobili, del latte, delle case. Ogni cosa in questo pianeta ti appartiene e tu sei in ogni cosa. Sei indefinibile e indefinito. Non hai volto e hai mille volti. I centri dell città testimoniano la tua presenza e la tua gloria con immensi edifici bancari in cui si entra con rispetto e timore. Nessuno mette mai in discussione la tua autorità anche se non hai leggi. Gli Stati si inchinano e falliscono di fronte alla tua potenza, almeno finché non si incazzano. La sera, prima di dormire, guardo i tuoi trend, il tuoi battiti del cuore, e mi addormento con le cambiali sul comodino, al lume di una lampada comprata a rate."

Per una ricostituente europea

sbilanciamoci
Dal 10 al 12 febbraio, per tre giorni al Teatro Valle occupato di Roma si terrà una "costituente dal basso", per dar vita a un nuovo spazio pubblico transnazionale

Un nuovo processo costituente dunque sta prendendo forma nello spazio dell'euro e dell'Unione. Una «rivoluzione dall'alto», come ha scritto Balibar, sollecitata dall'iniziativa dei mercati finanziari, che sta riducendo in briciole la democrazia liberale che abbiamo conosciuto a partire dal secondo dopoguerra. In un mondo in cui i rapporti di forza fra Stati e settore privato sono mutati a tutto danno della sovranità non ci si poteva aspettare altrimenti. Il debito pubblico è quanto resta agli spossessati del capitalismo cognitivo, il prodotto congiunto del loro lavoro sfruttato. E’ quindi una legge ferrea dell’ economia politica che questo common venga “recintato”, in una nuova fase di accumulo originario.

Sarebbe ingenuo pensare che questo processo sia lineare. Nonostante gli sforzi di Draghi e Monti non è detto che la moneta unica ce la faccia: l'unificazione delle politiche fiscali è tardiva e i limiti ai quali Draghi deve sottoporre l'immissione di liquidità a sostegno degli Stati in crisi sono troppi. La Bce non è una banca centrale, non può stampare moneta, ed è stato proprio questo limite paradossale, imposto dalla Germania, a stimolare l'iniziativa degli hedge funds. Non è casuale che oggi siano proprio quest'ultimi ‒ pensiamo a Soros – a richiedere a gran voce l'istituzione degli eurobonds. La socializzazione del debito garantirebbe stabilità all'euro, ma anche liquidità in abbondanza per i mercati. La Germania non ci sta e guarda verso est. Altrettanto, non è casuale che proprio al seguito del vertice di Bruxelles la Merkel si sia mossa verso Pechino in compagnia di una ventina di imprese tedesche. Già 200 lavorano nel Guangdong, e il 30% degli scambi commerciali tra l'Europa e la Cina riguardano la Germania. Intanto in Francia è partita la corsa per le presidenziali e Hollande, il candidato socialista, promette, in caso di vittoria, di far saltare il Trattato.

Si tratta insomma di un processo costituente rissoso e incerto, quello avviato dal Fiscal compact. I risultati sul terreno economico sono ancora molto fiacchi, la Grecia e il Portogallo continuano a rischiare il default, altrettanto l'Irlanda. Mentre Spagna e Italia, devastate dalle politiche del rigore di Rajoy (e prima di lui di Zapatero) e Monti, procedono verso la recessione. Dal punto di vista politico, invece, i risultati sono evidenti: i cittadini europei non contano più nulla, già contavano molto poco prima, ora il tasso di democrazia nell'Eurozona si riduce al minimo. La direzione del capitalismo del vecchio continente sembra più che mai quella cinese: compressione smisurata dei salari, peggioramento delle condizioni di vita, azzeramento della “sostanza” democratica, in un quadro in cui anche i diritti negativi cominciano ad essere a rischio.

Slavoj Zizek, The Revolt of the Salaried Bourgeoisie

maurizioacerbo
Come ha fatto Bill Gates a diventare l’uomo più ricco d’America? La sua ricchezza non ha nulla a che fare con la produzione di un buon software Microsoft a prezzi inferiori rispetto ai suoi concorrenti, o con lo ’sfruttare’ i suoi lavoratori con più successo (Microsoft paga i lavoratori intellettuali uno stipendio relativamente alto). Milioni di persone ancora acquistano il software Microsoft, perché Microsoft si è imposto come uno standard quasi universale, praticamente monopolizzando il campo, come una incarnazione di ciò che Marx chiamava il ‘General Intellect’, con la quale egli intendeva la conoscenza collettiva in tutte le sue forme, dalla scienza al know-how pratico. Gates effettivamente ha privatizzato parte del general intellect ed è diventato ricco appropriandosi della rendita che ne seguì.

La possibilità della privatizzazione del General Intellect era qualcosa che Marx non ha mai previsto nei suoi scritti sul capitalismo (in gran parte perché ha trascurato la sua dimensione sociale). Eppure questo è al centro delle lotte di oggi sulla proprietà intellettuale: come il ruolo del General Intellect – basato sulla conoscenza collettiva e la cooperazione sociale – cresce nel capitalismo post-industriale, così la ricchezza si accumula al di fuori di ogni proporzione con il lavoro speso nella sua produzione. Il risultato non è, come Marx sembra avere previsto, l’auto-dissoluzione del capitalismo, ma la graduale trasformazione del profitto generato dallo sfruttamento del lavoro in rendita appropriata attraverso la privatizzazione della conoscenza.

Lo stesso vale per le risorse naturali, lo sfruttamento delle quali è una delle principali fonti mondiali di rendita. Vi è una lotta permanente su chi si appropria di questa rendita: i cittadini del Terzo Mondo o le grandi imprese occidentali. E’ ironico che nello spiegare la differenza tra il lavoro (che nel suo uso produce plusvalore) e altre materie prime (che consumano tutto il loro valore nel loro utilizzo), Marx dà il petrolio come un esempio di una merce ‘ordinaria’. Qualsiasi tentativo ora di collegare l’aumento e la diminuzione del prezzo del petrolio con l’aumento o la diminuzione dei costi di produzione o il costo del lavoro sfruttato non avrebbe senso: i costi di produzione sono trascurabili in proporzione al prezzo che paghiamo per il petrolio, un prezzo che è davvero la rendita che i proprietari della risorsa possono comandare grazie alla sua offerta limitata.

Una conseguenza della crescita della produttività causata dall’impatto della crescita esponenziale della conoscenza collettiva è un cambiamento nel ruolo di disoccupazione. E’ il vero successo del capitalismo (maggiore efficienza, produttività elevata ecc.) che produce disoccupazione, rendendo i lavoratori sempre più inutili: quello che dovrebbe essere una benedizione – meno bisogno di duro lavoro – diventa una maledizione. O, per dirla diversamente, la possibilità di essere sfruttati in un lavoro di lunga durata è ormai vissuta come un privilegio. Il mercato mondiale, come Fredric Jameson ha evidenziato, è “uno spazio in cui ognuno una volta è stato un lavoratore produttivo, e in cui il lavoro ha iniziato dappertutto a dare un prezzo a se stesso fuori dal sistema”.
…AND A TINY LITTLE HELP FROM AIRCRAFT CARRIER “ITALY” FOR ISRAEL AGAINST IRAN…

venerdì 10 febbraio 2012

Lezioni dalla crisi. Elementi di una politica comunista

MIMMO PORCARO - controlacrisi
Ci diciamo spesso che la crisi ha confermato le nostre idee. Ma ciò è vero solo in parte. Ha confermato che il capitalismo, oltre ad essere iniquo, “non funziona”. Ma ci costringe a cambiare o aggiornare molte delle nostre più radicate convinzioni sul blocco sociale anticapitalista, e sullo spazio e gli obiettivi della sua azione. In sintesi, si può dire che il modello maturato a Porto Alegre e Genova agli inizi del nuovo secolo è ormai superato dai fatti: se ne vogliamo custodire e tramandare le acquisizioni fondamentali, soprattutto quelle relative alla democrazia ed alla molteplicità dei soggetti dell’emancipazione, dobbiamo inscriverle in un quadro concettuale del tutto nuovo.
L’inefficacia di quel modello è evidente in primo luogo riguardo al populismo. La mobilitazione democratica delle associazioni altruistiche non è in grado di intercettare problemi, umori e linguaggi della parte più deprivata delle classi subalterne. Questa parte, fatta di lavoratori dipendenti a bassa qualificazione, di autonomi che sono in realtà più dipendenti dei primi (si pensi al lavoro dell’autotrasportatore, strettamente legato – a rischio della vita – ai tempi dell’impresa) e di ceto medio fortemente impoverito dalla crisi generale, si allea ad alcune frazioni, meno forti, della borghesia anche perché l’altra parte del popolo, quella composta di dipendenti ed autonomi ad alta qualificazione, si allea di fatto alla frazione forte, globalista ed europeista del nostro capitalismo. Rompere queste alleanze, e costruirne una, nuova, tra le diverse frazioni popolari, è decisivo per la lotta egemonica: lo si può fare solo se, tra l’altro, non ci si ritrae di fronte al linguaggio populista dei nuovi conflitti. E se si trovano figure unificanti che, pur radicate in una analisi di classe, sappiano rivolgersi ai diversi soggetti sociali ed alle diverse forme di vita degli stessi “proletari”. In questo quadro diviene opportuno parlare di sovranità popolare e nazionale, come collante di un nuovo blocco sociale e base di una nuova politica.
Sovranità nazionale non è nazionalismo. E’ ridiscutere democraticamente quale sia lo spazio sovranazionale in cui il Paese di deve in ogni caso far parte. Qui si fa sentire un altro degli effetti della crisi: la progressiva dissoluzione dello spazio “globale” ed “europeo” nel quale eravamo soliti muoverci. Il multipolarismo è, in questo senso, uno spazio più favorevole della (presunta e parziale) globalizzazione, perché è l’unica griglia che possa sottoporre a controllo i flussi altrimenti devastanti dei capitali transnazionali. E non è più possibile trasformare l’Unione Europea in qualcosa di più paritario, cooperativo, democratico: è piuttosto necessario iniziare da subito a definire e costruire uno spazio mediterraneo-mediorientale in cui inserire il nostro Paese, prima come prospettiva da far balenare nelle trattative comunitarie, poi come concreta alternativa all’Unione monetarista.

Dickens, maestro di verità sociali, parola di Marx



Autore: Enrico Palandri - controlacrisi
Per l’autore del «Manifesto» ha fatto più denuncia politica dei politici di professione. A 200 anni dalla nascita il romanziere inglese influenza lo sguardo che abbiamo ancora oggi sul lavoro, la finanza, la povertà

Di Charles Dickens, di cui ricorrono oggi i duecento anni dalla nascita, Karl Marx scrive in un articolo apparso sul New York Tribune il primo agosto del 1854 che è un autore le cui... pagine eloquenti e icastiche hanno donato al mondo più verità politiche e sociali di quelle pronunciate da professionisti della politica, pubblicisti e moralisti messi insieme, descrivono ogni tratto della borghesia, dai detentori di capitale e beneficiari di rendite che guardano dall'alto ogni altro commercio come volgare, ai negozianti e gli avvocati.
La straordinaria influenza della società colta da Dickens ci ha costruiti e rimane lo sguardo che abbiamo ancora oggi sul lavoro, la finanza, la povertà. Di questo mondo ebbe esperienza diretta e lo racconta con uno schema pressoché costante in tutta la sua opera: rigida divisione in classi sociali e potenza del denaro, che istituisce e abolisce barriere in contrasto con l'umanità dei personaggi.
Denaro, ed è questa la grande innovazione, che è quindi del tutto indipendente dal merito e dal lavoro e al contrario è volatile, finanziario, appare e scompare improvvisamente attraverso eredità o eredità mancate, si moltiplica o crolla per accumuli e investimenti in borsa. Denaro che scorre insieme al sangue per le strade di Londra, la vera protagonista dei suoi romanzi, la cui natura completamente umana è data proprio dalla sua variegatissima popolazione.
Di queste fortune Dickens ebbe esperienza diretta: suo padre era stato rinchiuso nella famosa Marshalsea per debiti quando Charles Dickens aveva dodici anni, e altrettanto miracolosamente ne era uscito ereditando 450 sterline dalla nonna paterna (come Dickens racconterà nel personaggio William Dorrit).
FORTUNA AL CINEMA E IN TV
Dickens provò in quel periodo il destino del suo personaggio Oliver Twist, lavorando in una fabbrica piena di ratti per dieci ore al giorno, e in seguitò o per esperienza diretta o nelle sue inchieste giornalistiche, conobbe da vicino le diversissime condizioni sociali che ritrae nei suoi libri.
Quel mondo è ancora vivissimo nel nostro modo di pensare il mondo: dai suoi dodici romanzi principali e soprattutto da A Christmas Carol sono stati tratti 180 adattamenti cinematografici o televisivi, per non parlare della fortuna di Scrooge, che è l'archetipo di una miriade di personaggi fino allo Zio Paperone di Disney, che nell' originale inglese porta infatti il suo nome.
Negli ultimi anni la Bbc ha rinvigorito l'industria che ripropone queste storie al grande pubblico. Little Dorrit, Nicholas Nickleby o Bleak House sono tutte diventate fortunatissime serie televisive.

Il bluff del "sogno americano"

Emiliano Brancaccio in Agorà - Rai Tre
Luigi Einaudi sosteneva che la valutazione dell’idoneità, della competenza e del merito di un laureato non potesse essere stabilita in base al famigerato “pezzo di carta” sancito dallo Stato, ma dovesse piuttosto essere affidata alla logica del mercato. Questa visione si basa sull’idea liberista che la domanda del mercato si orienti sempre verso i servizi offerti dai soggetti realmente competenti, e rappresenti quindi il criterio più efficiente per premiare il merito. In base a questa idea, Einaudi esortava gli italiani a prendere esempio dagli Stati Uniti e dalla Gran Bretagna, paesi in cui prevale una selezione di mercato, e il valore legale dei titoli di studio è inesistente o comunque molto limitato. Ma sarà poi vero che i paesi anglosassoni sono quelli realmente in grado di premiare il merito delle persone, indipendentemente dalle provenienze familiari e dai privilegi di classe? I dati dell’OCSE dicono in realtà esattamente il contrario, con buona pace degli apologeti del liberismo universitario e del “sogno americano”. Emiliano Brancaccio (Università del Sannio) intervistato da Andrea Vianello

GRECIA, STIPENDI E PENSIONI IN PASTO ALLE BANCHE

- DI ARGIRIS PANAGOPOULOS – ilmanifesto.it - informarexresistere
Fino a notte fonda la riunione tra i partiti che sostengono il governo tecnico di Papademos. Tagli selvaggi agli stipendi minimi (-22%). La crisi non risparmia nessuno, solo le banche non si toccano

La Ue, il Fondo monetario internazionale e la Bce trasformano la Grecia nella più grande Chinatown dell’Europa per quando riguarda i bassi stipendi, l’abolizione della contrattazione collettiva del lavoro e le garanzie di protezione dei lavoratori. I greci saranno chiamati a pagare una nuova montagna di soldi per il salvataggio delle banche, però la «troika» vuole tenere le loro mani lontane. Per tre anni i governi greci non potranno esercitare il diritto di voto per le azioni delle banche in loro possesso, lasciando per l’ennesima volta mano libera agli stessi banchieri che hanno rovinato il paese. Il contrario di quel che è successo negli Stati Uniti e in Inghilterra.

La crisi non risparmia nessuno. Il Sacro Consiglio Permanente della chiesa ortodossa greca non ha aspettato il taglio del costo del lavoro e ha annunciato la chiusura della sua radio, mentre la sua frequenza si dice sia stata assicurata a un armatore.

Papadimos ha chiamato ieri sera i tre leader che appoggiano il suo governo tecnico per rispondere con un «prendere o lasciare» sul mini Memorandum che dovrà accettare il paese per garantire il nuovo maxi prestito e il taglio del debito nelle mani dei privati. Papandreou, Samaras e Karatsaferis hanno di fatto detto sì da giorni ai diktat della «troika», mentre all’interno dei due grandi partiti Pasok e Nuova Democrazia si alzano con più insistenza voci contrarie.

Il governo di «Papadimios», «Papa-boia», come è stato ribattezzato dall’opinione pubblica, sembra abbia accettato un forte taglio del 22% per lo stipendio minimo, che sarà esteso ai lavoratori del settore privato. Così un lavoratore nuovo avrà un stipendio mensile di 586,10 euro, invece dei 751,40 euro che aveva precedentemente, perdendo di fatto tre delle dodici mensilità dell’anno, mentre il sussidio di disoccupazione si riduce a 360 euro al mese. La «troika» ha poi un debole per i giovani. Così chi è sotto i 25 anni dovrà sopportare un altro taglio del 10% del suo stipendio minimo e accontentarsi di 528,49 euro al mese. E non basta. perché resta aperta la possibilità di un nuovo taglio del salario minimo e degli stipendi nel settore privato nei prossimi mesi e anni. Da parte sua il governo greco festeggia perché ha salvato la 13esima e la 14esima.

Il salario giornaliero per un lavoratore non sposato e senza esperienza si riduce ai 26,18 euro, dai 33,57 euro, e per uno sposato ai 28,80 dai 36,92 euro. Lo stipendio per un lavoratore con tre figli e nove anni di lavoro si abbasserà agli 808,96 dai 1.037,13 euro.

Per quando riguarda le pensioni lo scenario più probabile prevede l’immediato taglio del 15%-20% delle pensioni e del 15% per quelle integrative. La «troika» vuole una forte diminuzione dei contributi assicurativi, ma il governo greco sostiene che nel peggiore dei casi non deve superare il 10%. Gli stipendi e i contributi più bassi non si accompagneranno solo a pensioni più basse ma anche al bisogno di una riforma assicurativa e all’aumento della età pensionabile. L’abolizione del posto fisso nelle aziende a partecipazione statale e nelle banche si accompagnerà alla diminuzione dei loro stipendi e pensioni. Se non bastasse tutto questo, la «troika» imporrà fino alla fine del luglio «l’allineamento con i paesi concorrenti» della convenzione collettiva del lavoro. Intanto il segretario generale dell’unica centrale sindacale del settore privato Gsee, Giannis Panagopoulos, ha fatto una visita lampo alla sede dell’Ufficio Internazionale del Lavoro (Ilo) a Ginevra per prendere iniziative anche legali contro la violazione dei diritti internazionali del lavoro da parte della «troika», mentre oggi Gsee deciderà il piano dei nuovi scioperi e manifestazioni. Panagopoulos è stato martedì a Berlino dove ha informato dettagliatamente i sindacati e i parlamentari tedeschi sulle misure della «troika» contro i lavoratori greci. La distruzione della società greca è stata ammessa indirettamente dall’istituto di Bruxelles Eurostat, che ha notificato come già alla fine del 2010 il 27,70% della popolazione in Grecia o 3,03 milioni di persone vivevano ai limiti della soglia di povertà.

Gli ordini dei medici, avvocati e ingegneri hanno fatto ieri fronte comune per difendere la democrazia, lo stato sociale e di diritto. «Non si mettono sotto dura prova le nostre resistenze economiche, ma specialmente i limiti della nostra resistenza come liberi cittadini in una società democraticamente strutturata», dicono nel loro comunicato comune. Nel frattempo un altro senza tetto è morto di freddo fuori dell’ospedale di Patrasso.

Argiris Panagoupolos
Fonte: www.ilmanifesto.it
Link: http://www.ilmanifesto.it/attualita/notizie/mricN/6444/

http://www.comedonchisciotte.org/site//modules.php?name=News&file=article&sid=9835

Tratto da: GRECIA, STIPENDI E PENSIONI IN PASTO ALLE BANCHE Informare per Resistere http://www.informarexresistere.fr/2012/02/10/grecia-stipendi-e-pensioni-in-pasto-alle-banche/#ixzz1m0FHjxNw
- Nel tempo dell'inganno universale, dire la verità è un atto rivoluzionario!

PRIMI PASSI
MR. MONTI GOES TO WASHINGTON

giovedì 9 febbraio 2012

Finiremo come la Grecia? La crisi vista dalle strade di Atene



Da quando è iniziata la crisi, cosa è cambiato nella quotidianità di chi vive in Grecia? Se lo è chiesto Andrea Borgarello, fotogiornalista freelance di Torino, che tra novembre e dicembre ha trascorso alcune settimane ad Atene, a contatto diretto con le conseguenze della recessione sui cittadini.

di Andrea Borgarello Fonte: ilcambiamento
La Grecia, da un punto di vista macroeconomico, è in recessione dal 2008 (Foto di Andrea Borgarello)

“Finiremo come la Grecia” “finiremo come la Grecia”, tuonano i media. “No, non siamo come la Grecia” ribattono gli inguaribili ottimisti. Ma alla fine, debito pubblico, deficit e spread a parte, che cosa significa per noi cittadini comuni finire come la Grecia? Che cosa è cambiato nella quotidianità di chi vive nella Repubblica Ellenica ogni giorno?

Il paese, da un punto di vista macroeconomico, è in recessione dal 2008, e il 2012 confermerà il trend decrescente con un -3% dopo aver toccato questo stesso anno un -6%. E questo dato, associato all’indebitamento dello Stato che si appresta a superare il 160%, dà un’idea dell’instabilità in cui versano. Questi numeri, al di fuori delle cause che li hanno provocati, prime fra tutte la speculazione innescata dai sistemi bancari senza più lacci nel campo finanziario, si tirano dietro altri indici negativi che ci toccano da vicino.

Pensiamo al numero di disoccupati che secondo le stime del Fondo Monetario arriveranno al 19% nel 2012, quando nel 2008 erano al 7,7%. All’aumento delle tasse, tra le quali l’IVA al 23%, i tagli alla sanità e al sistema scolastico, dove anche i libri, un tempo gratuiti, adesso sono sostituiti da appunti e dispense, e infine alla novità della tassa sulla casa (tra 0,5 e 16 euro per metro quadro) il cui non pagamento prevede addirittura il taglio dell’elettricità. Ma non è certo finita qui.

Il 7 dicembre il nuovo Governo 'tecnico' ha approvato l’ennesima manovra di austerità, quella vera: basti pensare che le pensioni che da noi discutono se indicizzare o no, dall’inizio della crisi il governo greco le ha già ridotte del 30% (con le dovute esenzioni e differenziazioni fra mestieri), che i salari dei dipendenti pubblici sono stati progressivamente tagliati già 3 volte fino a un totale del 28% (senza contare gli esuberi e i blocchi alle assunzioni) e l’imposizione fiscale è salita in modo esponenziale fino a determinare un costo del lavoro del 41,5% (suddiviso fra impresa e lavoratore).

È per questo motivo che ho voluto vedere con i miei occhi cosa sta succedendo alla gente, se l’austerità si percepisce per le strade, se è tangibile.

Eccomi nel centro di Atene a conoscere e intervistare persone di diversa estrazione, professione, età. Tutti hanno voglia di parlare, di esternare la loro frustrazione.

Se si leggono le statistiche sulle attività commerciali, si vede che nel 2011 oltre 4000 attività hanno chiuso nella sola Atene, e la previsione è di un aumento dei fallimenti.

Entro in un’edicola e una coppia mista, lui libico, lei polacca, mi dice che 10 anni fa avevano dovuto assumere due persone per limitare la ressa dentro il locale: i Greci sono tra i più assidui lettori di quotidiani! “Oggi siamo solo noi due”, mi dicono, “nessuno compra più nulla”.

Un attimo dopo sono ospite a pranzo presso una famiglia ateniese al 100%, genitori sulla cinquantina, figli più che adolescenti. Quando racconto loro che cosa sto cercando di fare, mi ripetono con un sorriso cortese e malinconico “anche noi abbiamo un’attività di vendita ma… adesso non ci resta che metterci un lucchetto!”. E questo è solo l’inizio.

"Ho fatto l’Erasmus qui in Grecia nel 1999. Dopo la laurea vi sono tornato, ero innamorato di una ragazza greca ed erano gli anni del boom economico. Ho trovato subito un lavoro in uno studio di architettura a 900 euro al mese”, mi spiega Antonio 38 anni, architetto nostrano nonché libero professionista. Per Antonio che veniva dall’Italia era un sogno! Oggi invece nessuno investe nella ristrutturazione del proprio immobile, è superfluo. In molti nemmeno ce l’hanno più la casa. E conclude "Sono riuscito a tenere solo qualche cantiere, alcuni non sono nemmeno riusciti a pagarmi il lavoro nel frattempo svolto, se continua così o cambio lavoro o vado altrove".

Prove di requiem per la zona euro


Figura tratta da E. Brancaccio, Crisi della unità europea e standard retributivo, Diritti Lavori Mercati 2011/2 (cfr. anche E. Brancaccio, Current account imbalances, the Eurozone crisis and a proposal for a European wage standard, International Journal of Political Economy, forthcoming)

Mentre gli spread sui tassi vengono tenuti a bada dalla Bce, altri spread segnalano uno scollamento strutturale all’interno della zona euro, che alimenta il pessimismo sulla tenuta della moneta unica. Intanto, il Presidente Monti dichiara che “non siamo nel mezzo, ma verso la soluzione della crisi”. Se ci fosse il vecchio Premier, non avremmo dubbi a classificarla sotto la voce “barzellette”.

Fino a qualche tempo fa, eravamo relativamente pochi a ritenere probabile una deflagrazione dell’attuale zona euro. Nell’aprile 2010 scrivevamo che la Grecia non era affatto un caso isolato ma costituiva un campanello di allarme per l’intera Europa. Nel giugno 2010, con duecentocinquanta economisti sostenevamo che le politiche di austerity e di deflazione, caricate in larga misura sulle spalle dei paesi debitori verso l’estero, avrebbero solo aggravato la crisi e avrebbero reso prima o poi inevitabile lo sganciamento di alcuni di essi dalla moneta unica. All’epoca eravamo ancora piuttosto isolati. Negli ultimi tempi, invece, il numero di osservatori pessimisti sui destini della attuale unione monetaria è cresciuto esponenzialmente. Meglio tardi che mai.

Del resto, le evidenze sono ormai chiare a chiunque intenda esaminarle con un minimo di realismo. Pensiamo ad esempio ai tassi d’interesse. Qualcuno si consola del fatto che i famigerati “spread” - cioè le differenze fra i tassi d’interesse dei paesi debitori verso l’estero e i tassi d’interesse prevalenti nella Germania creditrice - sarebbero sotto controllo. Ma il motivo per cui essi al momento non aumentano risiede in misura prevalente nella “anestesia” che la Banca centrale europea ha praticato sui mercati. Se la Bce interrompesse gli acquisti di titoli, la speculazione riprenderebbe con ancor più vigore di prima. E gli spread tornerebbero a salire.

Per giunta, a segnalare lo scollamento sempre più ampio tra i paesi dell’eurozona, non ci sono soltanto gli spread tra i tassi d’interesse. C’è per esempio anche quello che potremmo definire “lo spread della disoccupazione”. In Germania i tassi di disoccupazione aumentano poco e in alcune fasi addirittura declinano, mentre in Italia e negli altri paesi del Sud Europa la disoccupazione effettiva cresce vistosamente. Ci sono poi anche gli “spread” che segnalano divergenze tra i dati dei vari paesi europei inerenti alle sofferenze bancarie, alla mortalità delle imprese, nonché ai valori di borsa delle banche, i quali tra l’altro evocano la possibilità di acquisizioni estere dei capitali più deboli ad opera dei più forti.

Un altro “spread” altamente indicativo è poi quello tra i costi del lavoro per unità di prodotto. La figura seguente descrive l’andamento effettivo dei costi monetari unitari fino al 2009, e poi una loro possibile proiezione lineare fino al 2025:

Se si considera la proiezione lineare come una pur rozza approssimazione dei potenziali andamenti futuri dei costi, la conclusione è che potremmo trovarci ben presto di fronte a una forbice incompatibile con la sopravvivenza stessa della moneta unica. La dimensione dei divari, oltretutto, è tale da rendere risibile qualsiasi tentativo di correggerli a colpi di deflazione salariale nei paesi debitori. Considerato che la stessa Germania in surplus ha praticato la deflazione relativa dei salari, la corsa al ribasso delle retribuzioni necessaria all’aggiustamento sarebbe di tale portata da provocare una nuova, ancor più violenta depressione.

Il Presidente Monti ha dichiarato che “non siamo nel mezzo, ma verso la soluzione della crisi”. Se ci fosse il vecchio Premier, non avremmo dubbi a classificarla sotto la voce “barzellette”.

Emiliano Brancaccio
GOOD NEWS
THEY SAY THAT IF THE SPREAD COMES DOWN TO OUR LEVEL WE CAN STILL BUY THE F.35 FIGHTERS

mercoledì 8 febbraio 2012

Uscire o no dall'euro?

Cronache dalla crisi
La proposta di restare fuori dalla moneta unica presenta più rischi e pericoli che vantaggi. Meglio costruire una mobilitazione per una "rifondazione" dell'Europa in senso solidaristico

di Michel Husson ilmegafonoquotidiano
È possibile riassumere in maniera semplicissima l’andamento della crisi: nel corso degli ultimi due decenni il capitalismo si è riprodotto accumulando una montagna di debiti. Onde evitare il tracollo del sistema, gli Stati si sono assunti il grosso di questi debiti che, da privati, sono diventati pubblici. Di qui in poi, il compito di questi Stati è quello di farne pagare la fattura ai cittadini, sotto forma di tagli dei bilanci, di aumento delle imposte più inique e di congelamento dei salari. In sintesi: la maggioranza della popolazione (lavoratori e pensionati) deve garantire la concretizzazione di profitti fittizi accumulati in lunghi anni.
Nel frutto c’era il verme. Voler costruire uno spazio economico con una moneta unica ma senza bilancio era un progetto incoerente. Un’unione monetaria monca si trasforma allora in una macchina per fabbricare eterogeneità e divaricazione. I paesi con inflazione più elevata della media perdono competitività, sono stimolati a basare la propria crescita sul sovraindebitamento.

Retrospettivamente, la scelta dell’euro non aveva del resto una giustificazione evidente rispetto a un sistema di moneta comune, con un euro convertibile nei rapporti con il resto del mondo e monete riadeguabili all’interno. L’euro, in realtà, era concepito come uno strumento di disciplina di bilancio e, soprattutto, salariale. Ricorrere all’inflazione non era possibile, per cui il salario diventava la sola variabile adeguabile.

Ad ogni modo, il sistema ha, bene o male, funzionato grazie al sovra indebitamento e, perlomeno nel primo periodo, al calo dell’euro rispetto al dollaro. Questi espedienti, però, erano destinati a esaurirsi e allora le cose hanno cominciato a guastarsi, con la politica tedesca di deflazione salariale che ha portato la Germania ad aumentare le sue quote di mercato, per il grosso all’interno dell’eurozona. Anche se questa era nel complesso in equilibrio, ha preso così ad approfondirsi lo scarto tra le eccedenze tedesche e i passivi della maggioranza degli altri paesi. I saggi di crescita dei paesi dell’eurozona non si sono ravvicinati, anzi hanno avuto la tendenza a divergere, e questo fin dall’introduzione dell’euro.

Ma cos'è questo debito?

Debito. Una parola pesante. Una parola che mescola in modo inestricabile considerazioni morali e finanziarie… La lingua tedesca è eloquente a questo proposito dato che utilizza lo stesso termine, “Schuld”, sia per "debito" che per "colpa".

di Cedric Durand ilmegafonoquotidiano
Debito. Una parola pesante. Una parola che mescola in modo inestricabile considerazioni morali e finanziarie… La lingua tedesca è eloquente a questo proposito dato che utilizza lo stesso termine, “Schuld”, sia per "debito" che per "colpa".
Anche gli antropologi hanno molto da insegnarci in questa materia.

Marshall Sahlins (1) e Maurice Godelier (2), in modo particolare, hanno mostrato che la relazione di debito si inserisce sempre in un rapporto di potere. È il riconoscimento di un debito simbolico che ha condotto all'apparizione di società gerarchizzate, diseguali, dove alcuni vivono del lavoro degli altri.
Nell'Antichità, a causa dei debiti, si rischiava di diventare schiavi o di essere costretti ad abbandonare i propri figli (3). Spesso all'origine di un gran numero di rivolte sociali, il debito era una minaccia permanente per queste società antiche, una minaccia evitata con il ricorso a periodici annullamenti generali di debiti o dei limiti posti alle esigenze dei creditori. Fino a dove si impone l'obbligo di pagare i propri debiti? Quando il debito diventa illegittimo? Vecchie questioni che esplora David Graeber nel suo ultimo libro, Debt, the First 5000 Years, ma che sono di scottante attualità in un momento in cui il debito pubblico è il pretesto per una brutale punizione collettiva.
Il debito è un rapporto economico e morale che impegna sia il creditore che il debitore, ma è anche un rapporto politico i cui termini possono essere rivisti in ogni momento. Ricordare questo oggi è essenziale dato che lo sviluppo di forme di governo fondate sul debito tenta di santificare questa relazione diseguale.

In nome del debito, viene messo in atto un processo predatorio il cui obiettivo è di offrire nuove opportunità di profitto per rilanciare la macchina capitalista ingrippata dalla crisi. Privatizzazioni a prezzi di saldo, diminuzioni dei salari e delle pensioni, smantellamento dei servizi pubblici, sono altrettante sfaccettature dello stesso fenomeno, cioè del tentativo di rilanciare l'accumulazione del capitale offrendogli nuove opportunità di profitto a spese di ricchezze precedentemente appannaggio della popolazione in generale oppure di un determinato settore della società.
Per opporsi a questa ondata di espropriazioni, per tentare di uscire da questo incubo, è necessaria una premessa: smascherare quello che s' intende per debito.
Si tratta innanzitutto di insistere sul fatto che il debito pubblico contrattato sui mercati finanziari liberalizzati è l'altra faccia della medaglia dell'austerità: il finanziamento delle amministrazioni pubbliche sui mercati è il meccanismo che permette un ricatto permanente attraverso i tassi di interesse. Altre forme di finanziamento sono esistite in passato. In Francia, fino alla soppressione dei "planchers d'effet publics" [obbligo fatto alle banche di detenere almeno una percentuale dei loro averi in buoni del Tesoro pubblico NdT] alla fine degli anni 1960, le banche erano in questo modo obbligate a contribuire al finanziamento dello Stato. Inoltre, contrariamente a quello che succede con la BCE, la banca centrale era autorizzata ad offrire garanzie illimitate ai titoli pubblici, scoraggiando nel contempo la speculazione (come è sempre il caso negli Stati Uniti e in Giappone).

Aziende magna e fuggi

I gruppi esteri che usano fondi pubblici e poi lasciano l'Italia.
di Ulisse Spinnato Vega. lettera43
Il capitale transnazionale si sposta rapido in giro per il mondo a caccia di profitti sempre maggiori. Arriva, crea occupazione diretta e indotta, dà benefici e ricchezza, ma a un tratto prende armi e bagagli e se ne va. Difficilmente pianta radici e di frequente crea illusioni. E quando migra lascia sul terreno lavoratori disperati e territori esausti, spesso incapaci di riconvertirsi.
Intanto la politica resta a guardare. Cioè, prima blandisce le multinazionali, le sostiene con fiumi di danaro pubblico. Poi appare del tutto incapace di contrastare un trasloco, una delocalizzazione. Nel frattempo, però, ad averci rimesso sono non solo i dipendenti e l’indotto, ma anche le casse dello Stato. E non poco.
IN CINQUE ANNI OLTRE 100 MLN DI EURO. Non è facile disaggregare le erogazioni pubbliche a beneficio delle aziende straniere dai dati complessivi sui sostegni all’industria in Italia. L’unico dato certo Lettera43.it lo ho ottenuto da Invitalia, l’agenzia per l’attrazione degli investimenti e lo sviluppo d’impresa che agisce per conto del governo e fa capo al ministero dello Sviluppo economico: dal 2006 al 2011 le imprese estere (o italiane, ma controllate da investitori esteri) hanno preso incentivi per 111,3 milioni di euro, con punte di 35,3 milioni nel 2009 e 30,9 milioni nel 2010, mentre nel 2011 i finanziamenti sono scesi a 12,3 milioni di euro.
NON CONTEGGIATI I FONDI LOCALI. Naturalmente si tratta di cifre parziali, legate al vecchio strumento del contratto di localizzazione, oggi sostituito dal più raffinato contratto di sviluppo che ha rimpiazzato anche il celebre contratto di programma. E soprattutto si tratta soltanto dei fondi erogati dallo Stato centrale, ai quali vanno poi aggiunte le risorse dell'Unione europea e i finanziamenti delle singole Regioni o Province autonome con le loro agenzie di sviluppo e la miriade di strumenti e programmi che hanno a disposizione.

Assistenza burocratica, sostegno all'impresa e formazione
In ogni caso, da Invitalia arriva una misura più che indicativa di quelli che sono stati gli stanziamenti elargiti alle multinazionali estere che venivano a insediarsi in Italia. Tutto molto bello, se si considera che l’agenzia per l’attrazione degli investimenti e lo sviluppo d’impresa, oltre agli incentivi finanziari, garantiva (e garantisce) assistenza sul fronte burocratico e istituzionale, sostegno alla ricerca e alla formazione. Intenzioni e pratiche buonissime che però si sono spesso scontrate con gli umori cangianti del capitale globale.

Halevi: Atene non può pagare

Autore: Joseph Halevi - controlacrisi
La vicenda greca sta arrivando alla sua conclusione formale e all'apertura di una fase del tutto nuova sia per il paese che per l'Europa. Alla Grecia viene imposto un trattamento paragonabile alle riparazioni di guerra decise a Versailles nel 1919 nei confronti della Germania; riparazioni che la popolazione tedesca non poteva pagare. Che Berlino fosse responsabile dello scoppio del conflitto, per altro interimperialistico, non conta, così come non conta che Atene o Roma abbiano «speso» troppi denari pubblici. Rimborsare il debito attraverso tagli e austerità fa crollare la società ed elimina le condizioni stesse del rimborso. Keynes lo capì benissimo e scrisse un famoso libretto di analisi e di denuncia.

L'Europa che ha prodotto i Monti e i Papademos è spazzata dallo stesso perfido vento irrazionale che la caratterizzò nel periodo interbellico: francesi e inglesi volevano i pagamenti da parte della Germania e gli Usa volevano che gli europei pagassero i crediti di guerra erogati da Washington, spingendo Londra e Parigi ad aumentare la pressione sulla Germania di Weimar. Furono la seconda guerra mondiale e l'ordinamento di Bretton Woods a spezzare il circolo vizioso.

È la stessa logica, applicata all'obbligo del pagamento del debito pubblico, ad aver portato i Papademos e i Monti al potere esprimendo un fallimento politico, morale e istituzionale completo dell'insieme dell'Unione europea. L'ottusità monetaria del governo Merkel non corrisponde a una razionale strategia del capitale tedesco. Piuttosto riflette il miraggio di un traghettamento della Germania verso uno spazio vitale economico oltre l'Europa, verso la Cina e gli altri grandi paesi emergenti. Questo miraggio, perseguito dal governo e dalle maggiori industrie, rafforza l'idea di Berlino di non volere vincoli nei confronti dei singoli paesi europei - rifiutandosi quindi di riconoscere che il peso non può gravare prioritariamente sui paesi in deficit altrimenti tutto il sistema economico va in retromarcia - ma di esigere però che i singoli paesi rispettino i vincoli finanziari verso la Germania. La Grecia ora in miseria non può più pagare, punto e basta.

Se il governo ellenico firma quanto richiesto dalla Germania l'impossibilità di pagare si manifesterà nell'ulteriore immiserimento della spossata popolazione con il conseguente crollo, già ampiamente in atto, della base dell'imponibile da dove provengono i soldi per i rimborsi, tra i quali vanno annoverate le somme pattuite con l'Europa e il Fondo monetario internazionale. Se firma, la Grecia si avvia verso un sicuro fallimento di fatto piuttosto che formale ma con tutte le implicazioni negative riguardo il sistema finanziario e reale europeo.

L'ottusità tedesca esprime pienamente la sua retrograda stupidità quando i governanti di Berlino vogliono far credere che sia possibile cauterizzare il bubbone greco impedendo il contagio e che, di fronte alle drastiche misure di austerità del Portogallo, della Spagna e dell'Italia basti una maggiore flessibilità dei salari e delle condizioni di lavoro per far riprendere tutti, compresa l'agonizzante Grecia. Sono tesi profondamente false che esprimono l'ideologia delle classi dirigenti europee in crisi

martedì 7 febbraio 2012

Può il capitalismo auto-riformarsi?

di ANTONIO MARTINS. democraziakmzero
Outras Palavras (www.outraspalavras.net, sito di San Paolo del Brasile che si occupa di “internet e post-capitalismo”, ndt) pubblica un brillante e provocatorio testo dell’economista Ricardo Abramovay. Nel recensire “La terza rivoluzione industriale” (pubblicato in Italia da Mondadori, ndt) di Jeremy Rifkin, richiama l’attenzione su alcune caratteristiche della possibile transizione a una economia post-petrolifera e post-comunicazioni di massa. Il nuovo paradigma produttivo avrebbe, come motore, l’energia generata in milioni di “microfabbriche” – edifici comuni, condomini o case che catturerebbero il potenziale energetico del vento o del sole per ridistribuirlo attraverso reti molto sofisticate. Così, gli attuali consumatori di elettricità diventebbero “prossimitori” – ossia sarebbero in grado di iniettare nel circuito l’energia che producono.

Nons i tratta di una immaginazione lontana nel tempo, ma di qualcosa che è nell’orizzonte degli attuali sviluppi tecnologici. Quel che Rifkin e Abramovay sottolineano è che, per sua stessa natura, questo nuovo paradigma rovescerebbe la concentrazione di potere che esiste nel mondo dei grandi giacimenti di petrolio e delle mega-centrali. Questo paradigma esigerebbe un potere “condiviso, decentrato e cooperativo”, come Internet. Di più: presentando Rifkin, Abramovay evidenzia i suoi legami con influenti leader politici (la cancelliera tedesca Angela Merkel, tra gli altri) e il mondo della mega-imprese. Vale a dire, l’ipotesi sarebbe quella di una evoluzione più o meno naturale per il nuovo standard – anche se Abramovay aggiunge: “Nessuna garanzia”.

La medesima ipotesi di una auto-riforma del capitalismo è stata avanzata dal giornalista Luis Nassif, nella sua rubrica economica di questa domenica (nel sito http://www.advivo.com.br/, ndt). Nassif prevede un ritorno alla fase post-Seconda Guerra Mondiale, in cui il sistema promosse una certa redistribuzione della ricchezza. Anche Nassif si basa su lavori di ricerca e di ampiezza internazionale. In questo caso, “Capitalism in crisis”, una serie coraggiosa di articoli che il non sospetto Financial Times sta pubblicando, in particolare un testo di Martin Wolf, principale editorialista del giornale. Qui, l’angolo visuale non è la tecnologia, ma le politiche economiche. Wolf si scontra con la credenza che ha orientato il Financial Times e gli economisti mainstream per tre decenni: la presunta capacità dei mercati di guidare la vita sociale. Wolf afferma, al contrario, che i beni pubblici – comprese le politiche sociali – sono i “blocchi strutturali della civiltà”. E aggiunge che un mondo globalizzato avrà bisogno di beni pubblici più sofisticati e di portata internazionale. Nassif ci ricorda che idee simili sono appena state esposte, al Forum economico mondiale di Davos, da Lawrence Summers, “uno dei teorici principali del Washington Consensus”.

Fiat, Marchionne incassa 50 milioni

E paga tasse più basse dei suoi dipendenti
di Vittorio Malagutti - Fonte: ilfattoquotidiano
Il Lingotto regala al manager italo-canadese un pacchetto di azioni a titolo di compenso supplementare. Alla somma multimilionaria è applicabile un'imposta massima del 30% prevista a norma di legge per i guadagni dei soggetti residenti all'estero (l'ad risiede infatti in Svizzera). Si tratta di un'aliquota inferiore a quella di migliaia di suoi lavoratori

Chissà, forse in un futuro prossimo il governo di Mario Monti riuscirà a centrare quello che, a parole, è uno degli obiettivi dell’esecutivo. E cioè spostare il peso delle imposte dal lavoro al capitale, dalla produzione alle rendite. Obiettivo ambizioso per un Paese come l’Italia dove finanzieri e speculatori vari finiscono il più delle volte per pagare meno tasse di imprenditori e lavoratori dipendenti. Un esempio concreto? Eccolo. Sergio Marchionne ha da poco ricevuto in regalo dalla Fiat, a titolo di compenso supplementare, un pacchetto di azioni che vale in Borsa oltre 50 milioni di euro.

Ebbene, l’imposta massima su questo gradito omaggio multimilionario non supera il 30 per cento. Tutto regolare. Questa, infatti, è l’aliquota prevista a norma di legge per i guadagni dei soggetti residenti all’estero. E Marchionne, come noto, agli occhi del Fisco nostrano risiede a Walchwil, nel cantone svizzero di Zug, uno dei più generosi delle Confederazione per quanto riguarda le tasse. Insomma, a conti fatti, il gran capo del Lingotto pagherà su questo maxi premio di 50 milioni un’aliquota inferiore a quella di migliaia di suoi dipendenti. Per esempio i quadri e dirigenti Fiat, che sono tassati fino al 43 per cento per la parte di reddito superiore ai 75 mila euro l’anno.

Possibile? Possibile che Marchionne se la cavi così a buon mercato? La conferma arriva dal quartier generale del Lingotto. Un comunicato stampa della Fiat ha reso noto che venerdì scorso il numero uno del gruppo ha venduto in Borsa 600 mila titoli Fiat auto e altrettanti di Fiat industrial, che produce camion e trattori. L’operazione ha fruttato al manager poco più di 7, 5 milioni di euro. L’incasso, spiega il comunicato del Lingotto, servirà a far fronte “agli oneri fiscali derivanti dalla assegnazione” di 4 milioni di azioni Fiat auto e di altrettanti Fiat industrial.

Risotto ai funghi, con articolo 18

di Alessandro Robecchi ilmanifesto
L'ufficio stampa del professor Monti si scusa con gli italiani. Purtroppo, per sopraggiunti impegni, il Presidente del Consiglio Tecnico non ha ancora potuto essere presente alle seguenti trasmissioni televisive: "Novantesimo minuto speciale serie B", "Elisir dossier prostata" e "Uomini e donne" di Maria De Filippi, dove avrebbe trovato inaccettabile sottoporsi a un contraddittorio con due giovani cubiste precarie.

In compenso, lo stesso ufficio stampa rileva gli ottimi esiti della partecipazione del professor Monti al segnale orario, dove ha precisato con puntiglio che le tredici e trenta erano in realtà le tredici e trentuno grazie all'azione del suo governo, per la cui stabilità ringrazia, in ogni caso, il suo predecessore. Buonissima anche la performance televisiva del Primo Ministro a "Debitodebitibù", trasmissione per bambini dove ha intrattenuto i piccoli ospiti spiegando che i papà gli rubano il futuro restando aggrappati alle loro mirabolanti garanzie sociali, e che se proprio ambiscono ad avere un futuro (che razza di pretese per un ragazzzino!) è meglio che lo affidino a lui o a maga Fornero.



Le divertenti ospitate televisive, tutte rigorosamente senza nessuno che faccia una domanda che non somigli a un salamelecco, non hanno distratto il Premier dal suo indefesso lavoro per la risoluzione della crisi e per il rilancio dell'economia. In particolare, ecco alcune cose che nessuno prima di lui aveva fatto: ordinare dei sondaggi sull'operato del suo governo (una vera novità!), e sostenere di essere stato frainteso dopo una frase particolarmente infelice (anche questa, cosa mai accaduta prima).


Forte di questa discontinuità con gli esecutivi che l'hanno preceduto, il professor Monti tiene a precisare che è ora di finirla con il buonismo sociale che ha portato l'Italia ai vertici delle classifiche mondiali della diseguaglianza economica. Non perdete comunque, questa sera, l'edizione speciale di "Risotti al tartufo", dove il Premier spiegherà che l'articolo 18 non è un tabù.
FROST
"The one in the middle is the article 18" (workers statute)

lunedì 6 febbraio 2012

Se le banche mettono le mani sull'affare delle carceri private

di federico giusti e adriano ascoli. controlacrisi
Nel silenzio generale è infatti passato l'articolo 44 del decreto liberalizzazioni del Governo Monti in tema di carceri, articolo con cui si individua nei soggetti privati, i titolari alla costruzione ed alla gestione delle carceri.
Il progetto, chiamato "Project financing”, ossia (per utilizzare l’espressione impiegata dal legislatore) "la realizzazione di opere pubbliche senza oneri finanziari per la pubblica amministrazione", è un modello per il finanziamento e la realizzazione di opere pubbliche. Ma tra tutte le opere pubbliche di cui il nostro paese ha bisogno (scuole, ospedali, centri di riabilitazione, aree verdi attrezzate) perché i privati sono tanto interessati alle carceri? E il Governo Monti e il ministro Severino non si erano presentati come i fautori di una diversa politica in tema di detenzione rispetto al Governo Berlusconi? solo parole, visto che il decreto sulle liberalizzazioni è in piena sintonia con il piano carceri voluto dalla destra.
Torniamo per un attimo al project financing, gli aspetti qualificanti sul piano economico sono :
a) la finanziabilità del progetto, ossia la produzione di un flusso di cassa (cash flow)
sufficiente a coprire i costi operativi, remunerare i finanziatori assicurando un certo margine di profitto.
b) la concentrazione del finanziamento in un autonomo centro di riferimento giuridico e finanziario (Special Purpose Vehicle, una sorta di società di progetto), a cui affidare i mezzi finanziari e la realizzazione del progetto stesso.
c) la costituzione a favore dei finanziatori esterni dell’iniziativa di "garanzie indirette", attraverso una ampia gamma di accordi tra le parti interessate limitando ai minimi termini
la possibilità di rivalsa dei finanziatori e degli altri creditori (appaltatori dei lavori, fornitori ecc.) nei confronti degli sponsors.
l'articolo prima menzionato del decreto recita:
"Al fine di assicurare il perseguimento dell'equilibrio economico-finanziario dell'investimento, al concessionario è riconosciuta, a titolo di prezzo, una tariffa per la gestione dell'infrastruttura e per i servizi connessi, ad esclusione della custodia”.
La gestione carceraria, eccezion fatta per le guardie, sarà quindi affidata a imprenditori privati che nelle carceri intravedono un affare lucroso. Ed è da considerare dunque che ogni figura non prettamente di polizia sarà di formazione privata, così la gestione amministrativa, il che in un carcere significa gestire quasi tutto.

Breve storia della crisi

di Andrea Baranes sinistrainrete
Questo testo è contenuto in appendice al saggio «Manifesto degli economisti sgomenti. Capire e superare la crisi» (pubblicato da Sbilanciamoci! e da minimum fax, 2012), un libro importante perché smentisce alcune false certezze sulla crisi economica che stiamo attraversano e fornisce delle misure alternative per fronteggiarla. Questa breve storia della crisi curata da Andrea Baranes ne è un assaggio.

Troppo debito?
Nella prima metà degli anni Novanta il governo Berlusconi annunciava un nuovo miracolo italiano fondato sulla crescita e lo sviluppo, prometteva tagli delle tasse per cittadini e imprese, investimenti pubblici per trasformare il paese. A novembre 2011 il governo si dimette sotto il peso degli interessi da pagare, tra conti pubblici che non quadrano e nubi sempre più minacciose di possibili default. La pressione fiscale aumenta, a partire dall’Iva, assistiamo a tagli generalizzati di tutte le spese pubbliche mentre i soldi per gli investimenti e lo «sviluppo» sono un miraggio sempre più distante. Il nostro paese è uno dei principali problemi dell’Unione Europea.

Cos’è successo allora in questi diciotto anni? Perché nel 1994 l’Italia era sì un paese con un forte debito e diversi problemi, ma, così ci veniva raccontato, con ottime prospettive, mentre ci ritroviamo nel 2011 con l’acqua alla gola e in balia delle tempeste finanziarie? L’argomento che ci viene ripetuto è che l’Italia del 2011 è schiacciata da un rapporto tra debito e prodotto interno lordo che sfiora il 120% e sta strangolando la nostra economia. Bene. Qual era allora la situazione nella prima metà degli anni Novanta? Tra il 1993 e il 1995 il rapporto tra debito e Pil in Italia superava il 120%.

Occorre quindi analizzare meglio le cause politiche, sociali, industriali ed economiche che contribuiscono all’attuale rapido declino del nostro paese.

Le motivazioni reali

Ancora all’inizio del 2011 il nostro governo si vantava del fatto che la crisi del 2007-2008 avesse risparmiato l’Italia e della solidità dei conti pubblici, delle banche e del sistema produttivo.

La crisi al contrario c’era, ed era in primo luogo legata al dogma economico della continua crescita dei consumi e del Pil. Se diminuiscono produzioni e consumi, oltre alle ripercussioni sul mondo del lavoro e su quello imprenditoriale, diminuisce il Pil. Al diminuire del denominatore aumenta il rapporto debito/Pil, e quindi i conti pubblici peggiorano.

Non solo. Riprendiamo in esame questo rapporto che riveste oggi un ruolo così fondamentale.

La chiamano «competitività», ma è «sfruttamento brutale»

Portogallo. Argiris Panagopoulos intervista Armenio Carlos, neo-segretario della Cgtp ilmanifesto
Parla il leader del principale sindacato portoghese, che sulla riforma del lavoro non ci sta: «Vogliamo alimentare la speranza che un'altra politica è possibile»

La capitale portoghese si è fermata l'altro ieri per lo sciopero dei trasporti che ha aperto una stagione di lotte che si annuncia lunga e che proseguirà subito con la manifestazione nazionale dell'11 febbraio, organizzata dalla Cgtp (Confederação Geral dos Trabalhadores Portugueses), la principale centrale sindacale del Paese. Del corteo contro lo smantellamento dei rapporti di lavoro e della strategia del sindacato abbiamo discusso con Armenio Carlos, eletto la settimana scorsa segretario generale della Cgtp.

Come è andato lo sciopero?
È riuscito. La metropolitana si è fermata, né si sono mossi autobus e treni. Le navi passeggeri non hanno lasciato le banchine sul fiume Tajo. I lavoratori hanno messo in atto una grande risposta per salvaguardare i loro diritti economici e protestare contro l'aumento (26% negli ultimi mesi) dei biglietti e la distruzione del trasporto pubblico. Lavoratori del trasporto pubblico e cittadini sono uniti contro la privatizzazione dei trasporti, perché sanno che a pagarla sarebbero proprio loro.

Quali sono gli obiettivi della manifestazione nazionale dell'11 febbraio a Lisbona?
Anzitutto sensibilizzare e mobilitare la società contro la disuguaglianza, la povertà e la disoccupazione imposte al nostro paese. Inoltre vogliamo alimentare la speranza che una politica diversa è possibile. Abbiamo bisogno di lotte di classe unitarie. Lavoratori e cittadini devono capire che è arrivato il momento di difendere i loro diritti e se stessi.

La troika e il governo conservatore stanno cercando di cambiare le relazioni di lavoro. Una parte del sindacato ha accettato in pratica una svalutazione interna con una diminuzione del costo del lavoro, voi invece avete abbandonato il dialogo...
L'accordo proposto non contiene nessuna misura per lo sviluppo, mentre rafforzerà recessione e disoccupazione. Nel migliore dei casi il Pil scenderà ai livelli del 2001, mentre il debito pubblico rimarrà a tre cifre, ben più elevato del 92% registrato prima della crisi. Inoltre il documento firmato dagli industriali e dal sindacato socialista Ugt rafforzerà la competitività con misure inaccettabili come la riduzione dei giorni festivi e delle ferie, costringendo i lavoratori a lavorare sette giorni in più all'anno. Prevede poi la riduzione del 50% della retribuzione per il lavoro straordinario, orari flessibili di lavoro e di salari. Così non si rafforza la competitività, ma lo sfruttamento brutale. La Banca Centrale del Portogallo stima che tra il 2012 e il 2013 perderemo almeno 420 mila posti di lavoro. Ufficialmente abbiamo 700 mila disoccupati. In pratica arrivano a 1 milione, perché le statistiche non rilevano i disoccupati di lunga durata e coloro che il lavoro hanno rinunciato a cercarlo. Allo stesso tempo si facilitano i licenziamenti e il loro costo per le imprese. Vogliono licenziamenti facili e poco costosi, nonostante la nostra Costituzione vieti espressamente quelli senza giusta causa.

Θέσεις για το σύγχρονο «κράτος έκτακτης ανάγκης»

Δημήτρης Μπελαντής rednotebook
Η συλλογιστική σύμφωνα με την οποία η «τρόικα» και τα συμφέροντα των τραπεζών θα έπρεπε να καθορίζουν την πολιτική γραμμή όλων των κομμάτων, είναι μια γραμμή πολιτικά ολοκληρωτική και θυμίζει έντονα την γραμμή του εκφασισμού στην Γερμανία του τέλους του ’20 και των αρχών του ’30

* Το σύγχρονο «Κράτος Έκτακτης Ανάγκης» αποτελεί μια οξυμένη μορφή της μεταδημοκρατικής-νεοφιλελεύθερης μορφής κράτους (Κόλιν Κράουτς, 2006) ως ειδικότερης εκδήλωσης του μονοπωλιακού αστικού κράτους. Ήδη στην μεταδημοκρατική μορφή κράτους (από το 1980 μέχρι και σήμερα), παύουν να διακρίνονται τα προγράμματα των αστικών κομμάτων εξουσίας ως καθαρές εναλλακτικές των μορφών ενσωμάτωσης των λαϊκών και μικροαστικών στρωμάτων στον αστικό συνασπισμό εξουσίας - με την έννοια ενός πιο νεοφιλελεύθερου πόλου από τη μια, και ενός πιο φιλοκοινωνικού-σοσιαλδημοκρατικού πόλου από την άλλη. Πρόκειται πλέον για μια μεταηγεμονική μορφή. Στην μεταδημοκρατική μορφή κράτους παύει, επίσης, να λειτουργεί η ηγεμονία μέσα από την παραχώρηση «δικαιωμάτων» και ικανοποίηση άμεσων συμφερόντων των λαϊκών τάξεων. Η μεταδημοκρατική μορφή αρχίζει στις αρχές της δεκαετίας 1980 (στην Ελλάδα μετά το 1989). Παύουν, λοιπόν, να υφίστανται κλασικές προγραμματικές διαφορές των κομμάτων εξουσίας, σε αντίθεση με ό,τι συνέβαινε στην κλασική κεϋνσιανή-φορντιστική περίοδο.
THE TECHNICAL GOVERNMENT IS THE CONTINUATION OF MY POLITICS BY OTHER MEANS

domenica 5 febbraio 2012

Chavez.

di Geraldina Colotti controlacrisi
Il capo del Mbr-200, il movimento bolivariano con dentro giovani ufficiali nazionalisti, finì in carcere. Ma fu l'inizio di un percorso politico democratico e (finora) inarrestabile: il «socialismo del XX secolo»
In una piazza Caracas recentemente restaurata, uno schermo gigante rievoca i momenti principali dell'insorgenza militare che, il 4 febbraio del 1992, vide affacciarsi sulla scena politica il volto del tenente colonnello Hugo Chavez Frias. A capo di un movimento clandestino, politico e ideologico, denominato Mbr-200, il giovane ufficiale tentò di rovesciare il governo di Carlos Andres Perez con un'operazione denominata Ezequiel Zamora. Per parecchie ore, i suoi mantennero il controllo in diverse città del paese: Valencia, Maracaibo, Barquisimeto e Maracay.

Tutto comincia a Caracas. L'allora presidente, giunto il giorno prima nella capitale dopo un lungo viaggio in Svizzera, viene informato dal ministro della difesa circa l'esistenza di un possibile colpo di stato. Quando arriva a Miraflores, un tank irrompe nel palazzo presidenziale travolgendo la scorta. In pochi minuti, Perez è costretto a fuggire. Dagli studi del canale televisivo Venevision, il presidente informa i cittadini di quanto sta accadendo, mentre gli insorti dirigono le operazioni dal Museo storico militare di La Planicie e dalla base aerea Generalissimo Francisco de Miranda nella Carlota.

Dopo poche ore, il governo nazionale riprende il controllo del paese e il presidente Pérez ritorna a Miraflores. Un'ora dopo torna in tv per informare dell'esito il paese. Il tenente colonnello Chavez depone le armi e viene arrestato dai militari fedeli al governo insieme ai suoi ufficiali. Anche il tenente colonnello Arias Cardenas, attualmente deputato all'Assemblea nazionale per lo stato di Zulia, che guidava l'azione a Maracaibo, depone le armi. Prima di andare in carcere, Chavez appare in televisione e si assume la responsabilità dell'accaduto: «L'insurrezione è fallita, per ora». E con quel profetico «por ahora» entrerà nella storia politica venezuelana. «In un paese poco abituato all'assunzione di responsabilità da parte dei politici, quel comportamento rimase impresso - dice oggi al manifesto il professor Andres Bansart, intellettuale di lungo corso della politica venezuelana -. Dopo, mentre Chavez era in carcere, il movimento Mbr-200 ingrossò le sue fila. Ricordo che allora, durante il carnevale, le mamme vestivano i bambini con la divisa di Chavez». Da ieri, in tutto il Venezuela si festeggia quel 4 febbraio.

Il riformismo impossibile

di Zag in ListaSinistra
La responsabilità della borghesia italiana e dei partiti della “sinistra” parlamentare di aver permesso, direttamente e indirettamente, a Silvio Berlusconi di mantenersi ai vertici della politica e di tornare più volte al governo è un dato storico pacifico e non più in discussione. I guasti, nell’accezione più ampia del termine, che tale scelta ha provocato sotto il profilo economico, sociale e politico, trovano una pregante trasposizione metaforica, peraltro non sfuggita alla stampa internazionale, con quanto avvenuto presso l’isola del Giglio.

La domanda è: avrebbe potuto il “centrosinistra” agire diversamente e smarcarsi da tali responsabilità, elaborare e proporre un programma politico alternativo invece di aderire convintamente alle politiche neoliberiste e rincorrere la platea delle partite Iva che altro non chiedeva che poter continuare a evadere ed estorcere plusvalore alle più favorevoli condizioni? La risposta credo sia già risolta nella domanda, nel fatto che le classi medie stesse hanno creduto di poter cavalcare il sogno che si offriva loro, all’incontro di molti, diffusi e compositi interessi, non solo di taluni partiti e non solo di forze nazionali.

Una situazione economica e del debito difficile che però aspirava con l’entrata nell’euro di trovare una qualche soluzione. Non poteva essere così per molti motivi: per via della particolare struttura produttiva italiana, per la miopia del padronato che invece di innovare e investire punta sulla riduzione dei salari, per lo stato di arretratezza endemica di molte zone del paese peraltro infestate dalla criminalità organizzata collusa col potere politico, per l’enorme evasione fiscale, per il parassitismo e il disinteresse delle classi dirigenti, per l’enorme e spesso inefficiente apparato burocratico, per lo spreco ingente nella spesa pubblica, per le stridenti diseguaglianze, ecc..

I SEI PILASTRI DELLA CONVERSIONE

di Guido Viale ilmanifesto
Misurarsi con il governo Monti sul suo terreno non è saggio. Monti comanda ma non governa. Comanda perché i partiti che lo sostengono (sempre più infelici) glielo lasciano fare e gli elettori che essi pretendono di rappresentare non hanno forze né strumenti per fermarlo. Per tutti il movente è unico: la paura di un disastro che non si sa valutare. Ma a governare non è né Monti né l'Europa, ma la finanza internazionale che decide per entrambi. Le misure adottate - "salvaitalia" e "crescitalia" - non avranno alcun effetto di stabilità, come non lo avrà il nuovo pacchetto ammazza-lavoro cucinato dalla prof. Fornero. Le cifre sparate sui futuri effetti di quei decreti (Pil +11%; salari +12; consumi +8; occupazione +8; investimenti + 18) ricordano più la tombola che le discipline accademiche di cui la compagine governativa mena vanto. Se oggi la speculazione sul debito italiano sembra placarsi è perché Monti le ha dato un altro po' di succo da spremere, esattamente come era successo in Grecia, fino a nuovo ordine. D'altronde Draghi ha spiegato che lo spread serve proprio a questo: rendere possibile quella spremitura che il lessico economico-politico chiama "riforme" e "modernizzazione". Ma con un debito di 1900 miliardi e un patto di stabilità che pretende di dimezzarlo a nostre spese, gli agguati della finanza continueranno a restare alle porte. E finché la finanza internazionale potrà contare su risorse che valgono 10-15 volte più del prodotto lordo del mondo non c'è governo che ne sia al sicuro; nemmeno erigendo una muraglia cinese contro i suoi assalti.
Il confronto con il governo Monti, con questa Europa e con il potere della finanza internazionale va quindi condotto su un diverso piano, che è quello della vita e delle condizioni di esistenza della maggioranza della popolazione, dei rapporti che ci legano all'ambiente fisico e sociale in cui viviamo, dei diritti inalienabili di cittadinanza che ne discendono in quanto abitanti di questo pianeta (tutte materie totalmente estranee alla cultura del governo, ma dimenticate anche da molti dei suoi commentatori e dei suoi critici). Quei rapporti rendono indissolubile il nesso tra ambiente ed equità sociale (e intergenerazionale: esisterà, si spera, un mondo anche dopo gli alti e bassi dello spread). Se la crisi economico-finanziaria e la crisi ambientale segnalano, con la loro dimensione globale, l'urgenza di una svolta per tutto il pianeta, questa non può prescindere, e non può distinguersi, da una radicale conversione ecologica del modo in cui consumiamo (e quello che consumiamo, alla fine, è l'ambiente) e del modo in cui produciamo (e quel che produciamo è soprattutto diseguaglianza e sofferenze superflue). E siccome la conversione ecologica riguarda in egual misura i nostri atteggiamenti soggettivi verso l'ambiente e gli altri esseri umani, e l'organizzazione delle nostre attività "economiche" (che cosa produciamo, come, dove, con che cosa e perché lo produciamo), è un imperativo concreto partire da quello che ciascuno di noi può fare, o intende fare, qui e ora.

Oggi la Grecia. Domani??

MONTI'S SNOWMAN
"I hate a permanent job"
Famously, the prime minister said: "Permanent jobs are monotonous"

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